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Briciole di pane

Cultura: "Racconti on the road", on line "Il viaggio del ritorno" di Federica Pitoni

I racconti del primo certame letterario dell'Anas

IL VIAGGIO DEL RITORNO


Del mio paese sapevo tutto. Sapevo la storia. Sapevo le guerre. Sapevo l’occupazione. E sapevo la bellezza. Sapevo la dolcezza dei suoi paesaggi. Sapevo persino dei suoi tramonti infuocati e delle sue albe in cui il turchese del cielo si tinge di mille sfumature di rosa. Sapevo la lingua. Conoscevo il suo cibo. Cantavo le sue canzoni. Ma nel mio paese non ero mai stato e fino a quel luglio del 2011, io non avevo capito cosa era il mio paese. Il mio paese si chiama Palestina. E solo oggi so cosa vuol dire essere palestinese.


Mi chiamo Jamal Khaldi, sono nato e vissuto sempre a Roma. Sono romano. Ho 16 anni e studio al Tasso, faccio la vita di un qualsiasi sedicenne italiano. Be’, non esattamente. In effetti essere mediorientali con le ragazze funziona. Insomma, sono carino, e il fascino mediorientale attira. Sono curiose le ragazze, vogliono sapere del mio paese, mi chiedono di parlar loro in arabo. Insomma, una cosa l’ho capita: a esser mediorientali si rimorchia di più! E secondo me anche Amina, mia sorella, rimorchierà un sacco. Èancora troppo piccola, ha solo 10 anni, ma è proprio bellina e diventerà bellissima, bellissima come la mamma. Farà strage di cuori. Ne sono certo. A parte questo, passo le mie giornate come tutti i miei coetanei: studio con un certo profitto, anche se qualche votaccio lo prendo e mio padre dice che non ho voglia di studiare. Mi vedo con i miei amici, usciamo, ci divertiamo. In più rispetto a loro c’è che io parlo anche arabo. C’è che io sono palestinese e mi arrabbio molto quando sento qualcuno dire che siamo solo dei terroristi, che tutti gli arabi sono terroristi, che i musulmani sono tutti terroristi. A parte il fatto che noi in famiglia non siamo musulmani. O per lo meno non siamo praticanti. Ma poi che vuol dire? Sarebbe la stessa cosa se dicessi che tutti gli italiani sono mafiosi, no? Il fatto è che i giornali, i media ci attaccano addosso delle etichette. Ne abbiamo parlato anche a scuola. La nostra prof. di italiano ci ha fatto anche fare un tema in merito: “Il razzismo nasce dall’ignoranza”. Ma l’ignoranza a volte è pilotata e usata politicamente. La prof. ha molto apprezzato il mio tema. Sono bravo in italiano, mi piace scrivere. E alla prof. piace molto quando racconto del mio paese.
Insomma, questa è la mia vita: studio, gioco, mi diverto, qualche concerto, gli amici, rimorchio… come tutti. Papà e mamma sono tutti e due medici e lavorano in due ospedali: papà è cardiologo, mamma neonatologa. Vivono in Italia da tantissimi anni. Hanno fatto gli studi universitari qui a Roma, qui si sono conosciuti, qui si sono sposati, qui sono rimasti e lavorano e sono diventati cittadini italiani. Mio padre si chiama Samir ed è di Al-Quds, sì, insomma Gerusalemme. Mamma, Naima, è di Nablus.
Quest’anno andrò per la prima volta in Palestina.

 Jamal, quest’anno a luglio ho deciso che tornerò in Palestina, sempre che mi lascino entrare… Vuoi venire con me?
In Palestina? Ci sto! Verranno anche mamma e Amina?
 No, solo io e te. Mamma a luglio sarà ancora al lavoro in ospedale. Io ho le ferie a luglio quest’anno e sono troppi anni che non torno a casa e tu non ci sei mai stato. È ora di andare.
 Papà…
 Dimmi Jamal!
 Io volevo sapere…
 Cosa? Dimmi! Hai perso la lingua?
Perché non sei più andato in Palestina?
 Capisco la tua domanda. Hai ragione. È un discorso lungo.
 Vorrei capire. È per zia Amina?
 È per zia Amina. È per Tawfiq. È per quella maledetta estate del 1987. È per la rabbia e l’impotenza nel non poter far nulla. Per non vedere il nostro paese violentato.
 Ma zia Amina come è morta? E zio Tawfiq? Cosa è successo nel 1987? Perché non mi hai mai voluto raccontare? Anche mamma non ha voluto. Mi ha sempre detto: un giorno ti dirà papà. So solo che gli zii sono morti in Palestina quell’anno…
 Forse volevo proteggerti. O forse volevo proteggere me stesso dal dolore. Ma tu hai ragione. È arrivato il momento anche per me di trovare le parole per parlarti della storia di Amina e di Tawfiq, di quegli anni della nostra giovinezza, che a loro è stata strappata via.

Ed è così che ho scoperto la storia dei miei due zii, Amina e Tawfiq, martiri per la Palestina. E nell’ascoltare il racconto, ho scoperto anche la fragilità di mio padre. E ho capito. Ho capito perché in quasi venticinque anni non è più tornato nel suo paese. A parte un paio di volte negli ultimi anni, in cui ha provato a entrare ed è stato respinto. È successo quando è morto un altro suo fratello, Abdulrahim, per un cancro al pancreas che lo ha velocemente portato via, e poi quando è morto il nonno e neppure quella volta ha potuto stare un po’ con la sua famiglia e stringere la nonna. Ho capito che la vita di noi palestinesi è sempre un percorso a ostacoli e che tutte le cose che per qualsiasi persona in altri posti del mondo sono normali, per noi diventano spesso, quasi sempre, un’impresa. E anche una gara con la fortuna.
Papà nel suo silenzio sulla storia degli zii aveva tentato di anestetizzare il dolore: lottava per il suo paese, scrivendo, partecipando a iniziative e dibattiti, ma vivere fuori dalla Palestina per tanti anni lo aveva portato in una qualche misura a distaccarsi emotivamente. E solo ora aveva trovato la forza di affrontare un percorso dentro il dolore. Questo viaggio, non lo sapevo ancora, ci avrebbe cambiato dentro. E nessuno di noi due, tornando, sarebbe stato più lo stesso.
Erano in otto tra fratelli e sorelle e tra zio Mahmoud, primogenito, e zia Nur, ultima nata, passavano venticinque anni. Mio padre era il secondogenito. A 18 anni mio padre venne in Italia per studiare medicina. Un anno dopo, anche lei al compiere dei suoi 18 anni, lo raggiunse zia Amina, la terzogenita, per iscriversi a ingegneria. Zio Mahmoud, invece, era già da tre anni al Cairo, dove poi è rimasto a vivere e dove insegna all’Università.
Papà racconta sempre di quegli anni felici a Roma con zia Amina. Studiavano e si impegnavano per la Palestina, erano nel direttivo di Fatah, facevano parte del Gups, l’Unione degli Studenti Palestinesi. La sede del Gups era a San Lorenzo e tra quel quartiere e l’Università passavano gran parte del loro tempo. Avevano trovato una casa a Ciampino, insieme ad altri due studenti palestinesi, per far fronte alle spese.
Anni duri ma di grande impegno, in cui tutti loro cercavano di far conoscere la “questione palestinese”, come la definiscono i giornali, il nostro dramma, quello per cui tanti di noi sono costretti all’esilio. Organizzavano dibattiti e manifestazioni. Cercavano contatti con partiti e sindacati italiani. E poi lavoravano per mantenersi e poi studiavano per laurearsi. Come racconta papà, erano anni in cui il tempo scorreva veloce tra assemblee, lezioni all’università, cene con gli amici, nottate a studiare e la passione toccava ogni cosa.
Quell’estate, era il 1987, avevano finalmente, papà e zia Amina, la possibilità di tornare a casa: erano quattro anni che papà mancava, da quando era partito, e tre anni che mancava zia Amina. Tornavano, finalmente! Eccitati, felici, emozionati. Grandi feste in famiglia: finalmente ci si ritrovava!
I giorni erano felici, anche se i problemi non mancavano. Zio Tawfiq, un altro dei fratelli di mio padre, era stato arrestato. L’accusa? Ma non c’era un’accusa! Era palestinese! Zio Tawfiq era andato a studiare in Libano da un anno. Rientrava anche lui per tornare a casa quell’estate e lo avevano arrestato. Nessuno ancora era riuscito a poterlo vedere. La famiglia in quell’estate era divisa tra la gioia per i due figli rientrati e la rabbia e l’angoscia per il figlio arrestato.
Zio Tawfiq restò in carcere, senza alcuna accusa precisa, due anni, tre mesi e quattro giorni. Morì in carcere. Aveva 21 anni, 19 quando lo arrestarono. Dissero che morì per un attacco cardiaco. Zio Tawfiq non aveva mai sofferto di cuore. Il suo corpo portava i segni di ripetute torture.
Zia Amina, invece, rimase uccisa pochi giorni dopo il suo rientro in Palestina, durante una manifestazione repressa dall’esercito israeliano. Il suo corpo venne preso e “arrestato”. Subì un processo e una condanna a trent’anni e finì nel cimitero dei numeri. Nessuno in Occidente ne parla. La Palestina è la terra dove tutto può accadere e dove i diritti non esistono. Dove lo sguardo dell’intero mondo si volta altrove. La Palestina è la terra dove se tiri un sasso sei un terrorista, se bombardi ti stai difendendo. È la terra dove infinite risoluzione dell’ONU restano lettera morta. In Palestina può accadere di restare uccisi in uno scontro con l’occupante sionista. È facile morire in Palestina. Non è l’eccezione. Ogni famiglia palestinese conta almeno un morto o un arrestato. La vita quotidiana in Palestina è scandita dai soprusi. Tutto diventa difficile: studiare, lavorare, persino amare. Insomma, vivere qui è più difficile che morire. E la Palestina è quel paese dove si può morire in uno scontro e poi, da morti, subire un processo, venir condannati e “scontare” la pena venendo seppelliti in uno dei cimiteri dei numeri: si viene tumulati senza avere il diritto neppure al proprio nome, si diventa un numero e la famiglia non può neppure piangere su una lapide! E solo alla fine della condanna, allora alla famiglia vengono restituiti i resti per poter dare finalmente una sepoltura al defunto. Questi sono i cimiteri dei numeri. Alla fine di quello stesso anno, il 1987, in Palestina scoppiò la Prima intifada.
Io questa storia non la conoscevo. Mentre mio padre raccontava lo guardavo: apparentemente imperturbabile, i suoi occhi tradivano tutta la rabbia e il dolore che aveva in corpo. È in quel momento che ho capito perché mai aveva voluto parlarmene e perché, dopo quell’estate del 1987, non era più tornato nel suo paese.

Arrivammo ad Al-Quds. Mi guardavo intorno spaesato, ma con una forte emozione. Eravamo nel primo pomeriggio, il caldo si faceva sentire, ma non era come Roma: stranamente dall’idea che mi ero fatto, a Roma faceva più caldo ancora, o forse è che era più umido e quindi il caldo dava più fastidio. Papà si fece lasciare dal taxi alla Porta di Damasco. Aveva deciso di fare un pezzo a piedi per raggiungere casa, nonostante i bagagli. E io ero contentissimo. Mi guardavo intorno: che bella la Porta di Damasco! Avevo visto mille e mille volte le foto, ma essere qui, calpestare queste pietre così antiche, dava un’emozione indescrivibile. Un po’ la stessa che provavo a Roma, quando giravo per la città, nel centro storico, tra i monumenti: toccavi la storia, pensando a quanti piedi avevano calpestato quelle pietre. Bellissimo! Ero come ubriaco dalla bellezza che avevo intorno. C’erano molti turisti e venditori di souvenir. E soldati, parecchi soldati israeliani. Giravano, guardavano, chiedevano i documenti ai palestinesi, solo ai palestinesi, mandavano via qualcuno, poi tornavano a girare, guardare, mandavano via qualche venditore palestinese e poi tornavano a girare e guardare.
Andammo un po’ avanti, addentrandoci verso la città vecchia, il quartiere arabo. Ancora venditori e donne ai bordi della strada che vendevano verdure, erbe. Una bancarella dove si vendevanofelafel era all’incrocio tra due vie. Guardai papà e lui capì subito. Sorridendo comprò dei felafel. I miei primi felafel ad Al-Quds. Che buoni! Che poi anche quelli che faceva la mamma erano buoni, forse anche migliori, ma qui, ora, questi felafel per me erano la Palestina. Prendemmo la strada alla nostra sinistra, Al WadRoad: turisti, gente che andava, ragazzini che correvano. Tanti, tanti negozi, botteghe che vendevano di tutto: artigianato, stoffe, monili, spezie, cibo. Papà procedeva sicuro. Sembrava uno che tornava in quella città dopo un’assenza di pochi giorni. Lo guardavo stupito. A un certo punto, di fronte a un negozio che vendeva spezie, si fermò ed entrò. Lo seguii.
Ahmad!
Un uomo, più o meno dell’età di mio padre, si girò da dietro il bancone. Lo guardò prima sospettoso, poi incredulo. Ci fu un attimo di silenzio.
Samir! SamirKhaldi! Sei tu, che Dio ti protegga?
 Sì, Ahmed, sono io. Sono tornato e questo è Jamal, il mio primogenito.
 Abu Jamal, che gioia rivederti!
Si abbracciarono. Restammo un poco in quel negozio. L’amico di mio padre ci offrì dell’ottimo tè alla menta.
Uscimmo e proseguimmo per vie e viuzze, un dedalo infinito di vie e viuzze, e finalmente arrivammo di fronte a un portone azzurro: la nostra casa!

Ummi, ecco, lui è Jamal, che Dio lo protegga!
Guardai la nonna, una piccola donna dagli occhi decisi. Anche lei rimase ferma a guardarmi. Poi, improvvisamente, un abbraccio deciso e umido mi strinse.
 Nel nome di Dio, Jamal, yahabibi, sei già un uomo!
Le sue mani mi carezzavano il viso, mi baciò sulle guance. Poi tornò a guardare papà.
Me lo hai portato già uomo, Samir! Guardalo! Sembra te trent’anni fa, che Dio lo protegga!
Nella stanza resa ombrosa dalle persiane accostate, da cui penetravano impudiche lame di luce abbagliante, c’erano seduti sul divano tre uomini e intorno ragazzini e ragazzine silenziosi che mi guardavano incuriositi: i miei zii e i miei cuginetti piccoli.
Due ragazze irruppero gioiose, portando un vassoio con il tè e un vassoio colmo di dolcetti, inondando improvvisamente l’aria del loro profumo dolce, delle risate appena accennate e provocando l’eccitazione dei miei cuginetti, che allegri si avvicinavano al vassoio dei dolci. Erano le due sorelle minori di mio padre, le piccole della numerosa famiglia, le mie zie. Ma come erano belle! Le guardavo tramortito dal loro profumo, dal tintinnio allegro dei loro braccialetti, i denti bianchissimi, occhi neri l’una, verdi l’altra, i lunghi capelli dall’odore di mandorla, gli orecchini scintillanti.
Subito i bambini le circondarono rumorosi. Io ero come paralizzato. Mio padre, allora, sorridendo mi disse:  Jamal, buongiorno! Devo intervenire come medico o pensi di farcela da solo a muoverti?
Ridendo si avvicinò alle ragazze e tutti e tre si ritrovarono stretti in un abbraccio allegro e commosso. Gli occhi di mio padre brillavano, la gioia emanava dalle sue parole, dal tono della sua voce, da ogni suo gesto. Ripeteva, incantato:
Nur, Fadia, vi ho lasciate che eravate bambine e ora vi trovo splendide donne!
 Anche tu, Abu Jamal, eri tanto più giovane! . Rispose ridendo la più piccola, Nur.
 Abu Jamal, Nur ti sta dicendo che ti sei fatto vecchio! . Si avvicinò ridendo il più grande dei fratelli di mio padre, Mahmoud.
Come stai, italiano?
 Bene, se Dio vuole. E tu Abu Omar?

Si abbracciarono con forza, quasi temessero di poter venir divisi. Zio Mahmoud prese tra le mani il viso di mio padre, guardandolo, scrutando ogni piega di espressione. Gli occhi di entrambi si fecero lucidi e per un attimo il silenzio riempì la stanza. Persino i miei cuginetti, che fino a un momento prima, vocianti, circondavano il vassoio dei dolci, si fermarono nell’immobilità del silenzio che sembrava pervadere ogni cosa. Quanto durò? Pochissimo, credo. Ma sembrò eterno.

Papà in quei giorni, mi portò con sé a fare molti giri, a visitare tanta gente. Io giravo con lo spirito di un turista, facevo foto, volevo visitare tutta la città. Era tutto bellissimo.
Quella mattina mi alzai e andai a fare colazione, in cucina c’erano Nur e nonna. Papà era già uscito. Vidi Nur andare di là, la seguii: prendeva la borsa e andava verso la porta.
 Dove stai andando, Nur?
 Al mercato. Vuoi venire con me?
 Sì!
 Vuoi fare ancora un po’ di turismo, Jamal?
 Magari!
 Mamma, vado al mercato. Jamal mi accompagna. Dillo a Samir, quando torna!
Va bene, Nur.
Uscivo per la prima volta senza mio padre. Ero emozionato. Questa città mi emozionava. Anche zia Nur mi emozionava. Ero intimidito dalla sua bellezza. Non aveva che pochi anni più di me, anche se era mia zia.
Le due piccole della famiglia, Fadia e Nur, erano molto diverse tra loro: mentre Fadia si era sposata e aveva già due figli, Nur studiava scienze politiche, era nel direttivo di zona di Fatah, faceva parte del comitato locale contro l’occupazione. Di tutti i fratelli e sorelle, lei era quella che somigliava di più a zia Amina, anche se non ricordava nulla di sua sorella: quando zia Amina morì, Nur era appena nata. Ma sembrava aver preso il suo posto nella lotta a distanza di anni.

 Facciamo un giro lungo per andare al mercato.
 Che bella questa città! È bellissima: è come Roma! Ogni passo che fai, senti la storia. Ogni pietra racconta qualcosa.
 Non sono mai stata a Roma, ma penso proprio che sia così. Sarebbe uno dei posti più belli del mondo se tutti potessimo viverci in pace, se non ci fosse l’occupazione, se avessimo la nostra terra come tutti i popoli.
 Perché non sei mai venuta a Roma? Mi piacerebbe farti vedere la mia città. Verrai a trovarci?
 Chissà, magari un giorno, Jamal. Non è facile per noi uscire dalla Palestina e poi rientrare. Tuo padre, come tanti, ha scelto di vivere fuori dal suo Paese. Io ho scelto di vivere qui. Anche se qui per noi tutto è difficile. Anche se non so mai ogni mattina se riuscirò ad arrivare puntualmente all’Università. Anche andare al mercato può diventare difficile a volte. Tu hai ancora lo sguardo del turista. Ma ricorda, Jamal: tu sei palestinese! Non sei un turista.
 Certo che sono palestinese! Cosa credi? Parlo sempre a scuola con i professori e con i miei compagni del mio Paese e spiego a tutti come si vive qui.
Ero un po’ offeso perché zia Nur mi trattava da bambino che non capisce. Ma io so tutto della Palestina. A un certo punto zia Nur si fermò, mi guardò e mi disse:  Adesso basta con il turismo! Jamal, Al-Quds è bella, bellissima, ma Al-Quds è anche Palestina occupata. Vieni con me.
Camminammo un po’ e zia mi invitò a prendere un taxi.
 Dove andiamo?
 Oravedrai.
Aveva detto al tassista di raggiungere la zona di Silwan. Il taxi andava per tutte quelle viuzze, non so neppure io come, si inerpicava, passava in strettoie dove avrei giurato non sarebbe mai passato. Ero stupefatto. Zia Nur aveva chiesto al tassista di fare il miracolo (disse proprio così) di non passare per posti di blocco e lui ci riuscì. Si fece lasciare in un punto in cui era sicura non ve ne fossero. Scendemmo e ci incamminammo.
 Dove siamo?
 ASilwan.
Dopo un po’ che camminavamo, girando per diverse vie, in un percorso che mi sembrava molto tortuoso, ma che zia Nur padroneggiava con grande sapienza, girando un angolo ci trovammo di fronte a delle transenne. Soldati israeliani cacciavano via tutti. E urlavano. Non vedevo bene, ma c’erano delle ruspe. Però i blindati dell’esercito impedivano di veder bene quel che accadeva. Zia Nur si fermò. Io cercai di andare avanti per vedere. La sentii chiamarmi e dirmi di non andare avanti, ma volevo vedere e proseguii. Arrivai alla transenna e feci per sporgermi. Un soldato israeliano mi urlò qualcosa in ebraico. Non capivo, ma era minaccioso. Mi si avvicinò spintonandomi. Stavolta mi urlò in arabo:  Vai via! . Riuscii a vedere qualcosa. Facevano uscire da una casa una famiglia. C’erano bambini che urlavano piangendo, un ragazzo, forse della mia età, che cercava di opporsi, una donna che urlava contro i soldati, un uomo che mostrava delle carte ai soldati. Un soldato, a un certo punto, scaraventò per terra la donna con uno spintone. In quel momento sentii le mani di mia zia prendermi per le spalle.
 Jamal, andiamo! Vieni via!
Io ero molto arrabbiato. Anche con la zia che ancora mi trattava da bambino che non capisce. Mi misi a urlare:  Non potete! Non potete! . Mi divincolai dalle mani di zia Nur, andai incontro ai soldati:  Non potete fare questo! . Mi arrivò un altro spintone che mi fece cadere a terra. A questo punto si avvicinò una soldatessa dalla pelle scura, giovanissima, e mitra alla mano, dandomi un calcio, mi disse:  Dammi i tuoi documenti! –. Mi alzai e le porsi il mio passaporto italiano. Zia Nur intanto si era avvicinata:  Andiamo via, Jamal! . Vedendo il mio passaporto italiano, la soldatessa, cambiò tono, guardò zia Nur e le disse:  Portalo via! . Tentai di protestare, ma zia Nur prese il mio passaporto e mi trascinò via.
 Ti avevo portato qui per farti vedere un’altra Al-Quds, non per cacciarci nei guai inutilmente.Cosa pensavi di fare, Jamal? Cosa? Farti arrestare? O pensavi di poterli fermare?
 Ma non si può stare a guardare! Li stavano cacciando da casa…
 …E poi demoliranno la loro casa. Lo so, Jamal. E pensi di poterli fermare urlando loro contro? Pensiserva a qualcosamagarifarsiarrestare?
 E allora? Insomma, zia Nur, che dovevo fare? Se tutti voi vi ribellaste: si poteva fare un picchetto per impedire loro di entrare, bloccarli.
 E venire tutti arrestati. E poi? Noi tutti arrestati, la casa demolita. Jamal, qui siamo nella Palestina occupata, non in Italia. Fare una manifestazione qui non è come farla in Europa. Opporsi a quel che accade qui non è come farlo in Europa. La resistenza non è un gioco e non si improvvisa. La resistenza si fa col cuore, ma prima ancora con la testa. Venerdì ci saranno delle manifestazioni. Se vorrai, verrai con me a manifestare.
 Sì, certochevengo!
 Ma, Jamal, niente colpi di testa! Niente stupidaggini! Hai capito?
 Zia Nur, siete voi che dovete stare attenti: io sono italiano. Non hai visto come hanno cambiato atteggiamento quando hanno visto il mio passaporto?
 Non esserne così sicuro. Certo, con un passaporto straniero ci stanno più attenti. Ma quando caricano e sparano, non ti chiedono prima il passaporto. E se ti arrestano… be’, poi dopo non è facilissimo uscire. E non ci servono eroi. Ci servono combattenti. La testa prima di tutto, la testa collegata con il cuore, ricorda.

Camminando, camminando, ci ritrovammo davanti al muro, il cosiddetto “muro di separazione”, il più giustamente detto “muro dell’apartheid”. Era impressionante. Quel muro gigantesco, minaccioso, tetro, che tagliava in due il nostro Paese. Si stagliava imponente, arrogante nella sua presenza, con un’alta torre, il filo spinato, militari sulla torre. Sì, certo sapevo che c’era e le foto le avevo viste centinaia di volte, ma ora, qui, vederlo era diverso. Mi si chiuse lo stomaco. Provai come una vertigine e la rabbia la sentivo esplodere dentro.
 Guarda quel muro, Jamal, e ora dimmi: pensi davvero che basti urlare loro contro qualche frase per abbattere quel muro? La nostra vita è molto difficile e ancor più difficile è diventata negli ultimi anni. È un percorso lungo, Jamal, e la lotta passa dal cuore, ma la si fa con la testa. Nienteimprovvisazione.
Restai muto. Camminammo ancora a lungo. Zia conosceva percorsi che ci permettevano di non incontrare posti di blocco. Procedeva con cautela ogni volta che girava un angolo, per accertarsi che non ve ne fosse uno di quelli estemporanei.
Prendemmo un altro taxi e rientrammo verso casa, passando prima al mercato a fare la spesa. Tornati a casa, tranquilla, Nur si mise a cucinare insieme a Fadia.
 Jamal, facciamo la maqluba stasera… ti piace?
 Tantissimo, zia Nur. È uno dei piatti che preferisco.
Mi buttai sul letto. Ma che mi succedeva? Eppure è vero che io sapevo tutto della Palestina. Le cose che ho visto, io le sapevo. E allora perché stavo così? Mi sentivo il sangue ribollire nelle vene. Non riuscivo a togliermi dalla mente quella famiglia, i loro volti mentre venivano cacciati dalla loro casa.
A cena mangiai poco e subito nonna si preoccupò. Papà, a fine cena, mi disse che la mattina dopo ci saremmo alzati molto presto, all’alba, perché andavamo a trovare dei cugini ad Abu Dis. E mentre lo diceva, scambiò strane occhiate di intesa con zia Nur.
Era ancora buio quando salimmo su un taxi che si mise velocemente a percorrere una strada che avevo già fatto il giorno prima. Riconobbi le strade di Silwan. Stavolta il taxi però proseguì e ci lasciò di fronte al muro, al checkpoint per entrare ad Abu Dis. Abu Dis è una zona alla periferia di Al-Quds, tagliata fuori, separata dalla città dalla costruzione del muro, tanto che tutti quelli che vi abitano e devono venire in città per lo studio, per lavoro o magari perché devono andare in un ospedale, devono passare per un checkpoint. Ci mettemmo in fila. Non c’era molta gente. Passammo abbastanza in fretta. Dall’altra parte prendemmo un altro taxi e andammo a trovare i nostri cugini. Restammo a dormire da loro. All’alba del giorno dopo, di nuovo quando era ancora notte, rifacemmo la strada percorsa, ma stavolta la fila al checkpoint era imponente: erano tutti i lavoratori, gli studenti che dovevano entrare ad Al-Quds. Restammo in fila più di due ore. Eravamo stanchi, faceva caldo. Entravamo in queste specie di gabbie, con i tornelli che giravano e facevano passare solo chi volevano i soldati. A volte la fila scorreva, a volte si fermava tutto per un tempo indefinito. Guardavo le persone in fila: c’erano donne con ceste di verdura, uomini dall’aria molto stanca, ragazzini silenziosi, studenti e studentesse con i libri sotto braccio, anziani che facevamo la fila per ore anche loro, magari solo perché volevano andare a pregare ad Al Aqsa. I soldati ci guadavano tutti con un’aria tra il disturbato e lo sprezzante. Noi con i nostri passaporti italiani non avemmo problemi. Altri, invece, vennero mandati indietro. Perché? Non lo so. Non c’era una logica. O perlomeno, io non l’ho capita.
Tornati a casa, vidi papà e zia Nur attardarsi a parlare. Non capivo di cosa, ma lui le diceva di no, ma poi alla fine disse:  E va bene! Dopo poco zia Nur venne da me.
 Allora, Jamal, domani è venerdì. Ci saranno, come ogni venerdì, molte manifestazioni in Palestina. Noi qui ad Al-Quds domani faremo una manifestazione che vogliamo sia molto visibile e la faremo quindi alla Porta di Damasco. Vieni con noi?
 E certochevengo!
La mattina dopo, quando mi alzai trovai zia Nur in cucina che spremeva limoni e riempiva due borracce con il loro succo. Mi guardò.
 Mettiti una maglia a maniche lunghe e i jeans, scarpe chiuse e prendi la kufiah.
 Ma zia Nur, fa caldo!
 Meglio il caldo, Jamal, che i lacrimogeni.
Andai a cambiarmi e uscimmo. A piedi raggiungemmo la Porta di Damasco. C’erano già molte altre persone, molti giovani. Mi presentò. C’erano cartelli e bandiere, un grande striscione. Arrivarono poi alcuni ragazzi e aprirono una grandissima bandiera palestinese, tanto grande che per stenderla, la tenevano in sei. Per un po’ sembrò tutto tranquillo. La nostra era una manifestazione pacifica per chiedere la liberazione dei prigionieri, contro le colonie sioniste e il furto della nostra terra, contro il muro dell’apartheid e l’occupazione. I soldati giravano, come sempre, ci guardavano. Certo, avevano l’aria nervosa. All’improvviso arrivarono delle jeep militari, da cui velocemente scesero molti soldati israeliani, mitra a tracolla, caschi in testa, manganelli alla mano. A quel punto, zia Nur prese la sua kufiah e mi disse di fare altrettanto. Le bagnò con molto succo di limone e mi disse di metterla in testa e di coprire bene il viso, più che potevo. Lo stesso fece lei. Non avevamo nemmeno finito, che arrivò il primo lacrimogeno. I soldati cominciarono a caricare. Arrivarono anche i soldati a cavallo. La gente si disperdeva. Scappavano tutti. Arrivavano manganellate. Per quanto coperto, sentivo la gola e gli occhi bruciare. Zia Nur mi disse di fare quel faceva lei. Cominciammo a correre, a correre. Correndo, zia Nur prese una manganellata, per fortuna non forte. Riuscì a non cadere e a continuare a correre. Altri erano caduti a terra e venivano picchiati. Alcuni venivano presi e portati via. Arrivammo ad Al WadRoad. La imboccammo, sempre correndo a perdifiato. Tutti i colori di quella via nella corsa si mischiavano, gli odori del cibo e delle spezie si facevano più acuti. Vedevo il sole, sentivo forti gli odori, avevo negli occhi i mille colori delle botteghe: come era diversa ora Al Wad Road rispetto solo a qualche giorno prima!
Correvamo con la paura che alle spalle ci arrivasse qualche soldato israeliano. Arrivati davanti al negozio di Ahmed, presi zia Nur per un braccio e la strattonai dentro. Ahmad ci guardò. Capì immediatamente la situazione. Chiuse velocemente il negozio. Trovammo riparo, potemmo riprender fiato e lavarci la faccia che bruciava. Uscendo, Ahmad regalò a zia Nur una boccetta di acqua di fiori di arancio per fare i dolci.
Arrivammo a casa esausti. Papà ci aspettava. Non disse una parola. Capii che il giorno prima con zia Nur stava proprio parlando di questo, di quel che sarebbe accaduto oggi. Ci guardò, ci abbracciò, ci chiese se eravamo feriti. Guardò la spalla di zia Nur per vedere se la manganellata aveva fatto danni. Era tutto a posto, era solo un po’ livida.
I giorni successivi li passai in modo molto diverso. I miei occhi non erano più quelli di un turista. Erano gli occhi di un palestinese. Capii che forse mio padre con quel viaggio voleva questo. Ripartimmo senza parlarne.


Da quell’estate sono passati due anni. Sono tornato a Roma e sto affrontando gli esami di maturità. Sono finalmente maggiorenne. E ho preso una decisione che in questi due anni ho lungamente meditato: tornerò a vivere nel mio paese, in Palestina. Non sarà facile. Mio padre mi ha guardato lungamente quando gliel’ho comunicato. Mi ha abbracciato, mi ha chiesto se ero sicuro di quel che dicevo. Poi mi ha chiesto di valutare la possibilità di rinviare questa decisione e fare prima l’università qui, anche perché non è affatto certo che in Palestina io possa seguire un corso universitario. E io, come mio padre, voglio diventare medico. Ma vorrei poterlo fare nel mio paese, la Palestina.


 

Federica Pitoni