Cultura: "Racconti on the road", on line "Inverno e fuga" di Daniela Catano
Ogni settimana un racconto del primo certame letterario dell'Anas
INVERNO E FUGA
È una tarda mattinata invernale. Il sentiero corre a mezza costa, allontanandosi dal paese tra gli abeti imbiancati dalla neve. Mi inoltro nel bosco candido e risplendente sotto i fiocchi sottili che impolverano l’aria gelida. I rami tessono trine che si protendono al di sopra del mio cammino, impedendo la vista del cielo.
Mentre procedo provo una strana sensazione di incredula attesa. Nella mia infanzia, quando giocavo nel bosco, mi aspettavo di vedere apparire all’improvviso un folletto o una fata degli alberi. Ora non mi meraviglierei se la regina delle nevi in persona mi si materializzasse davanti.
D’un tratto la vegetazione si dirada, scoprendo la vista della valle, con la strada sul fondo che si snoda verso nord, parallela al nastro del fiume scintillante, e in alto il disco del sole, di una luminosità pallida e diffusa, filtrata dalle nuvole che arrivano fin sotto le creste dei monti.
La neve continua a cadere impalpabile, appena una lieve polvere che volteggia creando giochi di luce mentre attraversa qualche raggio scolorito.
Poi gli alberi si infittiscono di nuovo. Ed ecco, in fondo al sentiero ghiacciato, vedo avanzare una figura dapprima indistinta; man mano che si avvicina, alcuni particolari si evidenziano, distaccandosi dal corpo centrale: un ombrello nella mano destra, chiuso e usato come bastone da passeggio, una capace borsa nella sinistra, che pende al suo fianco senza oscillazioni o movimenti che assecondino il procedere lento ma continuo della persona, non capisco se uomo o donna.
Ecco che si avvicina ancora di più, è a qualche metro di distanza e io riconosco la sagoma di un soprabito stretto alla vita da una cintura. Porta un berretto di lana, una specie di basco a spicchi verdi e blu che copre interamente i capelli. Sembra più una donna che un uomo.
Mi è accanto e vedo il suo viso asciutto, con le guance arrossate come quelle delle bambole di legno del secolo scorso esposte nel museo della valle, gli occhi azzurri e penetranti, un ricciolo di colore indefinibile che sfugge dal berretto.
Mi fissa e mi dice: - Buongiorno. Anch’io mormoro - Buongiorno ma sono a disagio. Mi sento come trafitta dai suoi occhi, i miei segreti messi a nudo per quella frazione di secondo in cui i nostri sguardi si sono incrociati. Quando mi ha oltrepassato, esito solo un attimo, prima di voltarmi a guardarla. Ma il sentiero alle mie spalle è vuoto, se non fosse per il vento, che all’improvviso fa turbinare la neve, scuotendola dai rami e risollevandola da terra in un candido caos trasparente, nel quale si è dissolto il mio miraggio.
Procedo lungo il cammino che ho scelto, ma la strada in costa si perde in un bosco e sono costretta a scendere a valle.
Sono partita, dovrei dire fuggita, da casa solo da tre giorni. Venerdì sera ho preso il primo autobus in partenza da Lucca che viaggiava verso nord. E non so neanche io come ho fatto a trovarne il coraggio. Non avrei mai creduto di poter abbandonare all’improvviso la mia casa e la mia vita, senza avvertire nessuno.
Mio marito mi starà cercando, avrà sicuramente allertato la polizia, anzi no, i carabinieri. Si rivolge sempre ai carabinieri quando ha qualche problema. E poi la loro caserma è proprio di fronte a casa nostra. Anzi casa sua. D’ora in avanti dovrò guardarmi dal pensare negli stessi termini in cui pensavo prima di questa fuga. Io sono io, la mia casa la sto cercando. Non esiste più un “noi”.
Anche nell’ufficio dove lavoravo fino a venerdì scorso, all’archivio comunale, si staranno chiedendo come mai non mi sono presentata questa mattina. E senza telefonare. “Una persona così precisa, così affidabile. Mai un’assenza, mai una dimenticanza”. Mi pare di sentirlo il mio diretto superiore, mentre esprime il suo sbigottimento fissando l’interlocutore al di sopra degli occhiali da presbite, perennemente calati sul naso, dove hanno ormai scavato una piccola fossa. Dubito che se li tolga mai durante il giorno, forse neanche la notte quando dorme.
Ho preso il passaporto, i contanti, la carta di credito, il cellulare, che però tengo perennemente spento. Certo che possono rintracciarmi se vogliono, ma ci starò attenta. Chissà se possono bloccare la mia carta di credito e il mio conto. Ci penserò poi.
Nella sacca da viaggio ho solo lo stretto necessario, qualche cambio di biancheria e di indumenti. Anche i miei gioielli. Mi potranno servire se rimarrò a corto di contante. Ho passato la prima notte in autobus quasi del tutto sveglia, temendo un furto. Alla fine ho dovuto cedere al sonno.
Al mattino quando mi sono svegliata, ero già arrivata a Verona; lì mi sono fermata per tutto il sabato e ho dormito in un piccolo albergo non lontano dall’Arena, di cui ricordo solo un vaso con un enorme mazzo di fiori finti posato sul bancone della reception.
Non ho dubbi sulla mia direzione. Questa valle porta verso nord fino al confine con l’Austria, che ormai non è lontano, ma devo scegliere un posto dove trascorrere la notte. Ora è questo il mio lavoro quotidiano: dirigere il mio cammino verso una meta sicuramente raggiungibile prima dell’ora del riposo. Mi rendo conto che sto contaminando questa avventura con la mia meticolosità. Sto lavorando per introdurre metodo ed eliminare incertezza, casualità, aleatorietà dal mio mondo. Del resto sono stata io a costruirmi attorno il mondo sicuro che adesso mi è sembrato all’improvviso una prigione da cui non potevo far altro che evadere.
Proverò a fare l’autostop.
Un camionista gentile si ferma e mi fa salire.
È un uomo con un ventre voluminoso, infagottato in un giubbotto che lo rende ancora più ingombrante: a malapena gli rimane lo spazio per i movimenti necessari alla guida. Dapprima è silenzioso, forse imbarazzato. Mi chiede dove sto andando. Ha un accento indefinibile, vagamente meridionale, probabilmente pugliese. Mi racconta di aver lavorato a lungo in Belgio. Poi comincia a parlarmi dei figli. Un maschio di 13 anni e una femmina di 16.
Già, le mie figlie. Non sentiranno la mia mancanza, sono adulte anche se abitano ancora con noi. Con il padre adesso. Quando erano piccole mi ritenevano indispensabile, ma ormai si limitano a un saluto distratto quando escono di casa la mattina o rientrano la sera. Se voglio parlare con loro le devo costringere, ma non è la stessa cosa: il loro tono è infastidito, a volte - ed è addirittura peggio - freddamente cortese. Mi parlano di effimere vacuità, come se fossi la loro parrucchiera. Chissà a chi confidano i loro problemi, a chi chiedono consigli. Non a me. La loro mamma è sparita per sempre, persa nella memoria della loro infanzia, non ne hanno più bisogno.
Poco prima del confine chiedo di scendere nell’ultimo centro abitato. Trovo una piccola pensione, un po’ discosta dalla strada principale, tranquillissima. È quasi ora di cena. La proprietaria è una donna di mezz’età, non deve essere molto più vecchia di me, asciutta e allampanata, fredda e distaccata come l’infermiera di un dentista svizzero. Trascrive i miei dati dal passaporto e mi dà la chiave della camera, senza dire una parola.
Nella sala da pranzo, a sorpresa un ambiente ospitale tutto rivestito di legno, scelgo un tavolo d’angolo accanto alla finestra: guardando fuori, al di sopra delle tendine, vedo la chiesa e uno scorcio di tetti e sullo sfondo le sagome delle montagne innevate, appena rischiarate da un soffuso lucore spettrale. Mi rendo conto che in nessun altro posto oggi avrei potuto avere questa identica visuale. Questo è un luogo unico, come unico è ogni essere umano che oggi ho incontrato, come unica sono io.
Ceno guardando la tv.
Non è molto diverso da quando ero a casa. Non mi sento affatto più sola, anzi. Da troppo tempo non parlavamo davvero io e lui, a parte qualche informazione reciprocamente e faticosamente strappata sulle esperienze di lavoro quotidiane. Ma il futuro, per esempio, da quanto tempo avevamo tacitamente e concordemente escluso che noi potessimo avere un futuro? E adesso il noi non c’è più, ci sono solo io.
Osservo i miei vicini. Una donna al tavolo in fondo beve una tisana. È magra, con le guance scavate e l’aria triste. Una coppia siede dall’altra parte della saletta. I due, abbondantemente sovrappeso, ridono e bevono birra, il colorito acceso, in preda a una evidente eccitazione.
Fuori è bianco e freddo. Dentro è caldo, risonante di voci e lingue diverse. Mi assale un languore che potrei provare dopo un’esperienza sessuale perfettamente riuscita, un calore che mi sale da dentro, forse provocato dal vino rosso e profumato appena bevuto, o forse dal mio nuovo atteggiamento mentale, epicureo, aperto alle sensazioni gradevoli. Fuori fa freddo e i fiocchi di neve scendono inesorabili, soffici e sempre più grandi, senza tregua da questa mattina; forse da giorni, ma è solo da questa mattina che io ho cominciato a vederli. Il mondo ovattato e freddo fuori mi aspetta. Quando esco odo solo silenzio, ma per nulla simile a quello della morte. Anzi sono assalita da un’eccitazione mentre cammino sotto i fiocchi instancabili, un’allegria rarefatta, un desiderio di perdere le inibizioni, di assaporare con la punta della lingua quei fiocchi gelidamente pungenti, che penetrano ferendo il caldo del mio cuore.
Al rientro nella pensione mi siedo al bar e ordino una grappa di moscato.
Un uomo viene a sedersi sullo sgabello accanto al mio. È basso, con radi capelli scoloriti e uno sguardo invadente. Mi chiede da dove vengo. Per un attimo ho l’impressione che stia per farmi delle proposte. Mi alzo, gli auguro la buonanotte e vado a dormire.
La mattina mi accorgo che ha smesso di nevicare. Mi guardo intorno. La pensione è tenuta in modo impeccabile: sulle mensole davanti alle finestre le orchidee sembrerebbero finte, se non fosse che una ragazza le sta innaffiando.
Prenderò un autobus, uno che mi porti più a nord possibile. Il mio parka mi permetterebbe di arrivare al polo.
Le informazioni che ricevo al bureau mentre pago il conto sono piuttosto confuse; qui parlano un italiano approssimativo e il mio tedesco è buono, ma non abbastanza quando cerco di entrare nei dettagli. Forse potrei noleggiare una macchina se solo riuscissi ad arrivare in un centro più grosso al di là del confine. Forse Lienz. Ma no, sarebbe una traccia troppo facilmente riscontrabile.
Sull’autobus mi siedo accanto a una ragazza che ascolta musica in cuffia. Ci sono molti posti vuoti. Dall’altro lato del corridoio solo il sedile accanto al finestrino è occupato. È un uomo dal colorito bruno, per niente nordico, non sembra alto, anche se è difficile stabilirlo vedendolo così seduto. Si accorge che lo sto guardando e mi sorride. Un attimo e ricordo. Mi faceva la corte quando ero all’università, ma io non ci avevo fatto caso, prima che una mia amica me lo facesse notare. Lo trovavo simpatico, un amico piacevole e riposante, perfetto per i pomeriggi delle domeniche passati al mare o in pineta; aveva un sorriso rassicurante, di uno da cui non potresti mai aspettarti un inganno o un torto. Ma sarà davvero lui?
Prima di scendere mi lancia uno sguardo sorridente, di complicità o forse di riconoscimento. Forse era davvero lui. O forse si trattava solo di una vaga somiglianza. Spesso la mia natura accomodante mi spinge a cercare le somiglianze anziché le differenze. Il mio ideale è l’accordo universale non solo delle menti, ma anche dei corpi. Quando vedo un volto, immediatamente lo associo ad un altro. Sono stata spesso accusata dai miei familiari di trovare inutili somiglianze là dove non ce n’erano affatto.
Ho bisogno di una cartina. Ho solo una vaga idea di dove mi trovo, sicuramente in Austria, ma dove esattamente?
Da quando ho iniziato a viaggiare, tanti anni fa, mi è sempre piaciuta questa sensazione di perdermi in una città o in un paese nuovo. Specialmente a piedi, camminare per le strade del centro di una località sconosciuta fino a che sono sicura di non essere più in grado di riconoscere la strada. E solo quando mi sento persa - e ce ne vuole, perché ho l’istinto di un piccione viaggiatore - mi risolvo a estrarre la cartina dalla borsa e a fare il punto.
Non so se riuscirò ad abituarmi alla mia nuova vita. Ma perché non dovrei? Devo solo esercitarmi a escludere dalla mia mente tutto ciò che l’occupava prima: marito, figlie, casa, lavoro. Sono innumerevoli le cose - oggetti, avvenimenti, persone - con cui potrei sostituire quello che ho lasciato. Al momento però non me ne viene in mente neanche una.
Sono arrivata al capolinea. Scendo dall’autobus immediatamente dietro a una vecchia signora incredibilmente agile per la sua mole, che si avvia a passo sostenuto su per la strada principale.
Mi guardo intorno. Sull’altro lato della strada c’è un negozio di souvenir. Esamino la vetrina e improvvisamente mi rendo conto che non ho più nessuno a cui poter regalare nulla. Mi balena alla mente il ricordo di un galletto di vetro opaco nero, screziato di rosso, bianco e blu, che comprai a Murano durante una gita scolastica quando avevo tredici anni. Mi sembrava un regalo adatto per mio padre, e del resto non avrei saputo proprio che cosa altro scegliere per lui. Quando lo tirai fuori dalla borsa in cui l’avevo trasportato, la sua lunga coda era spezzata. Mio padre cercò di consolarmi, dicendo che con un po’ di mastice non si sarebbe neanche notata la frattura. Fu il primo e l’ultimo regalo che gli feci. Lui morì improvvisamente sei mesi dopo.
Ha ripreso a nevicare, e stavolta fittamente. Potrebbe essere qualsiasi ora del giorno, anche se il mio orologio segna le tredici e trenta, perché il sole non si distingue al di là del chiarore lattiginoso e diffuso che mi sovrasta. Mi guardo intorno e non vedo nessuno. Al centro della carreggiata innevata i solchi lasciati dai veicoli stanno annegando nel biancore che inesorabilmente li sommerge. Cerco invano qualche indicazione da seguire. La neve si sta trasformando in tormenta.
Vengo da sud e sto andando verso nord.
Cultura: "Racconti on the road", premiati i vincitori del primo certame letterario dell'Anas