Cultura: "Racconti on the road", on line " Kariasa" di Maria Annunziata Giannotti
Ogni settimana un racconto del primo certame letterario dell'Anas
KARIASA
Le piccole casse di legno si offrono sbilenche ai viaggiatori. Sono cariche di ciliegie, rosse quelle nuove e violacee quelle più mature, succose e ingorde di primavera.
Hanno un aspetto invitante, se solo qualcuno potesse apprezzarle. Invece automobilisti distratti sfrecciano sulla 131 e non le notano neppure. Peccato.
Lui aspetta lo stesso, all’ombra di quel leccio secolare, che qualcuno faccia in tempo a frenare, scenda dall’auto, si incammini a passi lenti verso le sue ciliegie, aggiustandosi i pantaloni stropicciati, o rimboccandosi le maniche della camicia.
In verità, i suoi non sono semplici clienti.
Sì, potrebbero sembrare persone che, casualmente, passano di lì, per lavoro, per compere, per andare al mare o per chissà che.
Qualcuno ascolta musica e guida piano. Gioca con il vento che gli attraversa le dita della mano aperta e fuori dal finestrino abbassato a metà. Non c’è fretta, anzi, c’è altro tempo, perché non sono inseguiti da ritardi o da tempi irraggiungibili.
Vedono un piccolo cartello, avvistano le casse, toh, un venditore ambulante.
La sua Panda quattroperquattro bianca ha il cofano aperto. Lui si siede accanto all’auto su una seggiola mezzo sfondata. Le tre casse sono ben disposte su un’asse di legno, e sopra di esse il cartello «KARIASA», scritto con un pennarello rosso sul retro di un cartone del latte.
Poggiati per terra con finta casualità un cumulo di libri che si spalancano al vento.
Ora legge il giornale, gambe accavallate, camicia a maniche corte pulita, pantaloni con l’orlo rimboccato che scoprono una caviglia forte, un mocassino leggero, consumato e lucido nei bordi. Un cappello di rafia gli copre parzialmente il profilo.
Accidenti a questo maestrale che fa i dispetti e piega le pagine.
Ne ha viste lui di macchine sfrecciare. Fa questo lavoro da quando una brutta forma di artrosi gli ha piegato le dita a uncino, e per campare non vi erano alternative. Notti insonni da dolori mai abbastanza spiegati a chissà quanti dottori, che non sanno quanto bruciano le carni piegate da ossa malandate.
È un abusivo, illegale, fruttivendolo di primizie, in un mondo di centri commerciali dove altari di frutta geneticamente manipolata promettono offerte speciali.
È un ibrido, è qualcuno che sfida ogni giorno il destino, e lo vive in una piazzola sulla strada statale 131, la lingua d’asfalto nero che attraversa la Sardegna, da Porto Torres a Cagliari.
Sulla seconda uscita per Oristano c’è una grande piazzola alberata, lì c’è tziu Ciriaco.
Non ha cognome né telefono, non ha foto che lo ritraggono, non ha permessi né licenze.
Vive laggiù, dietro quella collina, e secondo come tira il vento certi giorni si può sentire anche il mare. È un sardo vero, un montifferaiu autentico, ma con occhi azzurri come il mare di Cefalù e mani nodose, che hanno intrecciato fin da bambino ceste e corbule di ogni grandezza.
Quelle dita lavoravano giunchi resistenti e arroganti. Piegavano per ore fili di vimini come fossero di seta, intrecciandoli a suo gusto fino a costruire piccoli tesori di vero artigianato sardo, non quegli orrendi cestini made in china che trasportano su e giù i TIR in questa strada.
Sua madre gliel’aveva detto, quando da bambino tornava fradicio dal fiume che costeggiava il paese, disgraziato, tu non morirai dentro un letto.
***
Ciriaco finiva sempre nei guai, e manco lui si sapeva spiegare il perché di quest’accidenti di casualità che lo faceva sembrare uno che cerca disgrazie. Era solo un gioco di strane coincidenze, cercava di spiegare alla madre, mentre lo inseguiva con un nerbiu per frustarlo a dovere, maledetta l’ora che ti ho messo al mondo. Ciriaco non venne certo tirato su da carezze e fiabe, ma da una madre bella quanto basta per essere nei sogni degli uomini del paese e arrabbiata, sempre, a causa di questa vita che le era toccata vivere.
Una volta, in quella stradina sterrata dove passava tutte le mattine da quando era uscito dal ventre di sua madre, Ciriaco aveva visto un luccicare strano in mezzo alla cunetta, e convinto che fosse un tesoro perduto, molla a terra la vecchia bicicletta carica di giunchi da intrecciare e si mette alla ricerca del gioiello più grande del mondo, finito lì, su quella stradina per lui.
Passarono ore e ore e il sole tramontò in silenzio. Arrivarono dal paese che era buio pesto, con le luci e i cani al guinzaglio, a cercare quel ragazzino che così in ritardo non lo era stato mai e nessuno credette a quel bimbo visionario che aveva solo perso la cognizione del tempo.
Un bimbo che parlava di un diamante, grosso come una stella, a forma di ciliegia, una kariasa così grande mì, prezioso come nient’altro.
Ma quando lo trovò, dopo ore e ore di ricerca a testa in giù con le gocce di sudore che gli colavano dal naso, passò di lì una strana creatura che camminava leggera sulla terra, con un velo bianco addosso da cui Ciriaco vide in trasparenza la donna più bella che avesse mai visto.
Si chinò leggera sul bambino e gli propose uno scambio. Era suo, quel pezzo di cielo, donato da un amore perduto. Quel prezioso in cambio di un dono.
La madre gliele suonò davanti a tutti, perché quasi quasi nell’averlo ritrovato così ci fece una brutta figura, con questa sciocchezza di questa donna, ohi, un racconto senza senso, e poi, una giornata senza neanche una corbula, il che significa una settimana senza pane, e no, non gliela doveva fare.
Ciriaco d’altronde, in questo mondo di scettici e di coetanei che lo guardavano come fosse un insetto e queste ceste che non finivano più, da creare seduto in uno sgabello di fèrula tra i vecchi di Santu Lussurgiu, granitici e silenziosi, non ci voleva mica stare.
***
Ma sua madre aveva amato quel giovane, tempo fa, un militare della base di Cabras, in una serata troppo bella per non essere vissuta e non dedicarla a quell’amore improvviso. Lui, un siciliano puttaniere con gli occhi azzurri come il suo mare, amava tutte le donne allo stesso modo, con quel fare mezzo arabo e mezzo siculo che aveva nel sangue, ed entrò dentro di lei sotto un cielo di fine settembre.
Così, tra mani esperte e baci passionali, Mariuccia si lasciò prendere su un letto di vimini vicino al fiume, che scorreva tranquillo e profumava ancora di estate.
Fu un amore unico, dove l’amplesso di una sedicenne si fuse con la luna e diventò figlio.
Un bastardo, come lo chiamava lei quando lo inseguiva per strada, o un burdo, se preferite, come dicevano di lui in paese.
Venne al mondo il 21 di giugno dell’anno dopo, scivolando su questa terra insieme a un ammasso di placenta e di sangue.
Lei era davvero bella, Mariuccia, figlia unica di Ciriaco Atzeni. Di quelle ragazze che vogliono diventare donne quanto prima, con la femminilità che esplode da ogni bottone e la voglia di respirare amore e libertà.
Avrebbe voluto come sposo uno con la divisa. Perché lo stipendio fisso, di questi tempi, buttalo via. Avrebbe voluto lasciare Santu Lussurgiu perché troppo stretto di mentalità, troppo piccolo, troppo tutto. Immaginava i suoi capelli neri legati da un foulard in seta, un paio di occhiali a riparare i suoi occhi ambrati dal sole, su una decappottabile guidata dal suo futuro sposo.
Andare a Bosa Marina a pranzo e poi giù, verso Cagliari, per prendere il traghetto. Passare per le stradine provinciali e attraversare i borghi e le città, suonare il clacson e salutare con eleganza.
“Stanno costruendo il nuovo tratto della 131 babbo caro, lo sapete? Passerò anche lì e vi scriverò dalla Sicilia per raccontarvi com’è”.
Mariuccia tagliava cipolle per il sugo e sognava a occhi aperti.
Invece il caporale Sergio Noto, della base militare di Cabras, sparì al primo sospetto di quella gravidanza. Manco una lettera, un saluto, o un bacio.
Mariuccia rimase lì vicino al fiume ad aspettarlo, per ore. Vomitò per due giorni, di disperazione e di maternità.
Ciriaco, ecco il nome scelto dalla ragazzina, proprio come il nonno materno. Atto di pegno per rabbonire il povero babbo, che fece da padre a questa creatura e perdonò quella figlia ingenua e inesperta di uomini.
Quando jaju Ciriacu andò in comune a registrare il nuovo arrivato era appena sorto il sole, e l’impiegato comunale non era ancora sbronzo di vinelli e birrette, grazie a Dio.
Cosicché non fece troppe domande da solito ubriacone impertinente qual era e lasciò andar via quell’uomo, piegato dalla vergogna e dal disonore.
Ciriaco e basta gli disse secco e senza accenti. Figlio di N.N.
***
Passa un mercedes blu, sarà a 60 all’ora, i cerchi in lega luccicano di autolavaggio. Frena dolcemente, i vetri privacy non fanno intravedere alcunché.
Si ferma un po’ più in là, mette le quattro frecce, passa qualche minuto.
E pensavo che volesse le mie ciliegie, disse a voce alta Ciriaco. Invece sarà qualcuno che armeggia con il cellulare.
Si rimette a leggere il giornale, cronaca di Oristano.
Legge le prime righe della cronaca locale. Furto di bestiame.
Sente uno sportello chiudersi, ovattato dal confort di un’auto di lusso.
Voltandosi verso quel suono vede una donna, bella come una dea, su un paio di tacchi che allungano le gambe affusolate e abbronzate.
Gli sorride come fosse un vecchio amico.
In silenzio, con gli occhi nascosti dagli occhiali da sole, prende una ciliegia e con voluttà la mette in bocca, con un gesto lento che scuote l’eros del settantenne.
Buonissime sospira. Ciriaco si alza dalla sua postazione sgangherata e prende una busta di carta. Inizia a riempirla, un pugno, due, tre. Le dita a uncino sembrano fatte apposta per abbrancare i suoi frutti. La busta è colma e la signora lo guarda compiaciuta, pronta a saziarsi di rarità.
Ciriaco nota la fede nuziale, scintillante e un po’ larga sull’anulare candido di manicure, pesa le ciliegie su una vecchia bilancia starata. Fanno otto euro, e chiude l’incontro con la sua bella cliente. Mentre lei prende il sacchetto, Ciriaco le dice che un’amante così svuota l’anima e la cassaforte.
Quella ragazza, sposina da pochi mesi rimase sorpresa.
Torni da suo marito. Guardi, tra un chilometro trova una rampa, la faccia, c’è l’inversione di marcia.
Lei ribatte, ma balbetta ed è insicura, che la confonde con qualcun’altra… Guardi, tenga il resto, va bene così.
Ciriaco infila i dieci euro in una scatola in alluminio con gli angoli arrugginiti. Lentamente, senza voltarsi, ritorna a sedersi, apre il giornale, continua a leggere:
«Quaranta pecore svanite nel nulla. I cani che le sorvegliavano sono stati ritrovati sgozzati».
Il mercedes riparte portando con sé l’anima di quella donna che cerca una rampa per tornare in se stessa.
***
Questo dono di sentire il respiro delle anime altrui, Ciriaco per un periodo della sua vita, lo rinnegò.
Suo nonno, che gli aveva insegnato a fare le corbule, gli impartiva lezioni di vita mentre i suoi occhi non distoglievano il ricamo dei giunchi.
“Gli uomini sono tutti uguali, minorè, laureati e analfabeti, sani e malati, savi e mentecatti, eleganti o morti di fame. Li vedi?”, gli diceva indicando i signorotti eleganti all’uscita dalla messa. “Quelli non sono meno di te. Bevono e mangiano, cagano e respirano esattamente come te. Non sentirti mai inferiore a nessuno, siamo usciti tutto dallo stesso buco. Tu, anzi, se proprio te lo devo dire, sei unu pitzinneddu strano, con questa storia che c’azzecchi sul futuro. Tu sei meglio di loro, credi a me”.
Era una lezione ripetuta più volte in un giorno, seduti sullo sgabello di ferula nella piccola corte della loro casa, davanti alla chiesa.
Ciriaco sentiva rintoccare le campane ogni ora, alzava gli occhi al cielo e inspirava l’aria che la nuova ora sembrava soffiare.
Il nonno aveva ragione. Siamo tutti uguali, ma questa sensazione, questo formicolio alle mani e alle piante dei piedi e i pensieri che diventano immagini al solo tocco di una mano, o di una ciliegia, mica gli altri lo avevano.
Ma aveva ragione anche per i guai: questo bambino che tenuto per mano alla madre andata a parlare per un lavoro nei campi, disse ad alta voce alla padrona: “Signò, arriverà una siccità che rovinerà il raccolto di tutti i campi lì intorno”, e si scatenò il finimondo.
Quando accadde “sa limba sicca” glielo dissero tutti, e fu accusato di essere uno pindaccio, jettatore e blasfemo, una creatura senza dio e senza padre. Ma Ciriaco è fatto così: come noi guardiamo il cielo, che senza averlo mai toccato sappiamo che esiste, lui vede un fatto che sta per accadere o sente quanta ira racchiude un cuore e quanto amore sopisce in un’anima.
“Ricorda Cirì, tutti abbiamo dei rimpianti, tutti abbiamo dei segreti, tutti abbiamo dei sogni”.
***
Quel ragazzo, quello con il fuoristrada, era stato il più gentile e riconoscente. Ed eppure aveva modi rudi e avambracci di pastore che avevano munto chissà quante pecore e fatto chissà quanto formaggio, immersi fino al gomito nel latte bianco. E silenzi diffidenti di chi non sta spesso in mezzo alle persone ma con le proprie bestie. Lo chiamò a battezzargli il bambino, perché compare più fidato di lui, non ne esisteva.
Bastiano voleva solo un chilo delle ciliegie e basta gài. “Sì, ma tu non passare qui domani”.
“Io passo dove mi pare”, gli rispose il pastore che non vedeva l’ora di tornarsene a casa da sua moglie e dai suoi seni morbidi.
“Io ciliegie non te ne do se prima non giuri sui figli che avrai che qui, tu, domani a quest’ora non ci passi. Fai l’altra strada, quella secondaria che passa qui sotto”.
Quello ride prendendolo per pazzo e gli dice di sì, mentre prende il sacchetto pieno di ciliegie che piacciono da impazzire a sua moglie, che aspetta un bambino da due mesi.
Ma l’indomani, tra vedere e non vedere che quel tziu aveva qualcosa di strano, il pastore fa il giro lungo, passa per la stradina secondaria piena di buche e a ogni buca lo maledice perché i bidoni del latte si appoggiano l’uno sull’altro, ammaccandosi.
E tziu Ciriaco, seduto con il suo libro in mano, sente quel tocco metallico di bidoni e si ricorda del tocco delle campane della sua chiesa.
Una nuova ora è pronta per essere vissuta.
Proprio in quell’istante passa un’autobotte. Veloce, troppo veloce. L’autista, uno nuovo del mestiere, deve fare lo scarico del gasolio in quel distributore che c’è tra venti chilometri e poi finalmente si trova una piazzola e dorme un po’.
Lo stridere della frenata è lungo, lungo quanti secondi non lo sa, la cisterna si muove a destra e a sinistra facendo perdere il controllo di quella bestia meccanica che sbuffa di freni che si consumano.
Si rovescia sull’asfalto come niente, mentre scintille e rumori di acciaio si fondono nell’aria.
Tziu Ciriaco abbassa lentamente il libro che sta leggendo, Il giardino dei ciliegi di Čechov.
Socchiude gli occhi per non vedere, impotente come solo un uomo può essere davanti al destino che avanza.
Il grande camion percorre diverse centinaia di metri sul fianco destro, cercando di fermare la propria corsa verso lo schianto.
Si mette di traverso, occupando tutt’e due le corsie, fino a fermarsi con le due ruote sinistre all’aria. Il silenzio che segue è irreale. Il cigolio del ferro piegato dall’urto, il ticchettio delle gocce di benzina che scendono sempre più veloci sulla strada. I lamenti del ragazzo che guidava, incastrato tra il sedile e il volante, ferito ma per fortuna vivo.
Arrivano i soccorsi, uomini che pestano il vetro infranto, presto, urla il comandante o qui saltiamo tutti in aria.
Arriva l’eliambulanza, un mezzo dei vigili del fuoco, curiosi e automobilisti che si accalcano preoccupati. Una fila di auto si forma lunga e ordinata, le quattro frecce lampeggiano di attesa.
Bastiano è lì vicino, con le mani nei capelli, e piange. È sul ciglio della strada secondaria che tziu Ciriaco gli aveva detto di percorrere.
Nel cassone del suo pick-up un bidone del latte si è rovesciato e tutto il suo contenuto sgorga inerme a terra.
***
Quando morì la madre per una malattia senza nome, Ciriaco rimase solo col nonno. Lui di frustate non gliene dava, ma certi sguardi lo ammasedavano più di una sgridata.
“Dove vai se non leggi un po’”, gli disse un giorno porgendogli il libro Cuore.
“Usa quegli occhi per leggere anche altro, e capirai molte più cose”.
La 131 era in costruzione. E Ciriaco si ricorda bene dei camion che trasportavano cilindri di cemento armato e tubi grandi e tondi quanto il sole di mezzogiorno ad agosto. Passavano sulla strada che costeggiava l’enorme cantiere e lui con quel libro in mano, avido di sapere, ogni tanto alzava gli occhi per osservare gli uomini al lavoro.
Era un posto dove gli piaceva stare, circondato da fitti castagneti e lecceti, splendida cornice di un dipinto. Stava solo ore e ore, a fantasticare e a immaginare che il cratere su cui nascevano le fondamenta della sua città si riaprisse, ingoiando tutti.
Sì, anche quella bisbetica cugina di secondo grado che gli sputava addosso ogni volta che lo vedeva. E il prete, che veniva da Abbasanta e gli faceva fare il chierichetto.
Il sindaco e le perpetue di San Lussorio Martire. Loro e il bigottismo sfrenato quando lo additavano come un illegittimo, forse figlio di questo, no, di quello, guarda il suo naso, mi pare quello del prete di Cuglieri.
La sua non era una visione. Era uno strano desiderio misto a rabbia, che neanche l’adolescenza avrebbe lenito. Che andassero al diavolo. Tutti quanti, tranne suo nonno.
Nonostante il chiasso e il fragore delle ruspe, nonostante la polvere, l’odore acre dell’asfalto e dell’acciaio, nonostante tutto questo, Ciriaco stava lì e vide costruire davanti ai suoi occhi la “strada nuova”, come la chiamavano i suoi concittadini. “Porterà solo inquinamento e bagasse”, bofonchiava il nonno.
“E poi, che razza di storia era questo nome, Carlo Felice di Savoia. Con tutti i sardi che si potevano onorare con quella strada, proprio a lui, al re di Sardegna che non amò mai davvero la nostra terra la dovevano intitolare. A un re sempre annoiato e con sbadigli larghi, che pensava solo alla sua Torino e poco al suo regno. A un uomo sterile di cuore e di figli, mincribodiu, lo sai Cirì, che vuol dire vero? Lui fece finire la sua zènia, la sua stirpe. Manco un’erede, boh!”.
Mimava a mani larghe concludendo: “Ha fatto morire con lui i Savoia!”.
Con le gambe a penzoloni, arrampicato su un albero, Ciriaco lesse molti libri, che lo facevano volare, crescere, muovere senza muoversi. Lesse di autori russi. I suoi preferiti, che lo conducevano per mano nelle loro descrizioni limpide, di colori e di profumi. Tolstoj, Čechov, Dostoevskij e sì, il principe Myškin aveva ragione. Ogni minuto, quando tutto sta per finire, vale una vita intera.
Con i calzoni corti e le ginocchia sempre sbucciate, Ciriaco promise niente più guai, al nonno che gli voleva bene per quello che era, un dono del Signore, nonostante tutto.
Ciriaco si sentiva il Tamburino sardo di cui aveva letto le gesta, un pirata e un cavaliere, un prode e un indomito eroe di Santu Lussurgiu, e prima o poi avrebbero scritto anche di lui.
La lettura lo portò lontano anche dai guai. Niente più tuffi sul fiume per accaparrarsi la stima dei compagnetti, niente più scherzi ai vecchietti, niente più lucertole spanciate per vedere come sono fatte dentro.
Una mattina arrivò al solito posto con i libri da leggere sotto braccio. Un silenzio assordante vibrava nelle sue orecchie. Là, dove c’era il cantiere, una lunga strada nera aspettava di essere violata. Ciriaco si avvicinò lentamente e sfiorò con una carezza quel manto lucido, tappeto persiano, succo di sudore e polvere e pietre. Chissà quante persone avrebbero percorso la loro vita su quelle corsie. Chissà quante auto avrebbero calpestato quell’arazzo di modernità e di velocità.
Verso sinistra, un cumulo di macerie e di grosse pietre estirpate dal suolo. In alto della catasta un cartello arrugginito e divelto: «Nuova strada ANAS 102».
E una punta di malinconia lo fece sentire improvvisamente adulto.
***
Ciriaco ereditò dal nonno un grande frutteto. La casa e il cavallo, una scatola di latta con foto ricordo sbiadite di avi in baffetti e berritta. Una cinquantina di libri, con la copertina rivestita con carta regalo, per proteggerli dall’usura e dai tarli. Grazia Deledda, Antonio Gramsci, Emilio Lussu, due libri di poesie, una Bibbia.
Il nonno morì che aveva più di cent’anni e Ciriaco lo sapeva bene che quell’uomo colto ma rude sarebbe campato più di tutti in paese.
Glielo lesse negli occhi una sera, di quel giorno che vennero a cercarlo, quando trovò il diamante nella cunetta.
Fu l’unico a credergli, fu l’unico che ascoltò quella storia per essere ciò che era. La verità che usciva dalla bocca di un bambino.
La notte stessa, mentre tutti dormivano, il nonno si avvicinò al bambino, che vegliava di adrenalina.
“Sai Cirì che qui, in questo posto di merda dimenticato da Dio, abbiamo le fate? Sì, davvero, io ti credo. Era una fata, una janas, quello che hai visto. Sono spiriti celesti trattenuti in questa terra perché hanno avuto un amore sbagliato, proprio come tua madre. E vagano Cirì, vagano e a volte le sento piangere. Vanno al ruscello, lavano le vesti dei bambini che non ci sono più. Il gioiello, chissà, poteva essere loro. Tu dato gliel’hai?”.
Ciriaco annuisce sbalordito.
“Hai fatto bene pitzinnè”, dice il nonno andandosene, “Sarai ricompensato. Le fate non sanno mentire”.
***
Ciriaco curò subito il frutteto, tastando i suoi frutti a ogni alba, dando acqua alle ore giuste, quando la terra è pronta, in quel preciso istante che dissetava meglio.
Un filare di ciliegi era il suo orgoglio.
Col tempo non immaginava più che il cratere su cui era nato ingoiasse il suo paese, quell’ammasso di cemento e di ghiaia. Non gli importava più se le bigotte si segnavano al suo passaggio, frettolosamente: nel nome del padre, del figlio, amen.
Smessa l’attività delle corbule, a causa dell’artrosi e di questi nuovi cestini l’uno uguale all’altro ma abbastanza folcloristici per essere venduti, aspettava il tempo di maggio per raccogliere le ciliegie e venderle in paese.
Nel frattempo che qualcuno più furbo di lui le smerciava al doppio del prezzo, tziu Ciriaco si sistemava sulla piazzola vicino all’uscita per Oristano. Un albero dal tronco largo e foglie sane lo proteggeva dal sole, e i libri e una borsa con pane e formaggio lo sostenevano, mentre viaggiatori sardi e turisti di ogni origine sfrecciavano sotto i suoi occhi.
***
Un’estate nonno Ciriaco andò a fare il teraccu in un altro paese, a Cabras.
“Ajò Cirì, mi pagano bene e mi danno anche formaggio, olio e olive se faccio pure da custode notturno. Vuoi vedere che imparo ad abbaiare?”, e rideva divertito.
Il nonno aveva accettato, “Ma sì”, disse, caricandosi i suoi stracci sulle spalle e salendo il gradino della corriera. “Se non altro, facciamo un giro nella strada nuova e mangeremo pesce”.
Percorsero la Carlo Felice.
“Essu che bella”, ripeteva il nonno, abituato agli scossoni a cavalcioni del mulo.
“Liscia come la pelle di quella prostituta di Oristano che mi facevo fino a qualche anno fa”, e gioiva sdentato. Le donne sedute dietro, al pronunciare di quella frase, si alzarono e lasciarono i posti vuoti, spostandosi in fondo al pullman.
Lui rideva di gusto, con le rughe intorno alla bocca, che incorniciavano un paio di labbra che amarono molte donne.
Né mariglia, né vinelli, a Ciriaco Flore piacevano solo le femmine, perdizione e dipendenza, sogno e rovina.
Sua moglie glielo diceva sempre, pace all’anima sua: “Avrai solo femmine, nella tua vita, a farti pentire di averle disonorate”. “E chi le disonora?”. A quella risposta senza imbarazzo la moglie batteva un pugno sul tavolo e si coricava con un dolore al petto.
Dopo l’ennesima scappatella, la povera donna morì di crepacuore, lasciandolo solo con una bambina da allevare.
Ciriaco guarda imbarazzato le due donne sedute in fondo alla corriera, quasi a scusarsi con loro. “Nonno, ti prego”.
“Cirì, in questa strada tu ci crescerai e i tuoi figli ci trasporteranno le loro mogli, credi a me”. Continuava a ridere cullandosi lentamente dal movimento della corriera… “Eh, non sarai mica mincribodiu come Carlo Felice?”.
***
Arrivati a Cabras gli diedero una casetta che manco una domus de janas era così scomoda e piccola.
Ma Ciriaco sistemò i suoi libri e il nonno sparì in cerca del padrone e delle femmine della servitù che potevano esserci in quella grande casa.
Essere bambino in un piccolo paese sardo è cosa semplice. Si gioca con un bastone che diventa spada o fucile, si tirano pietre sul cofano di quell’auto abbandonata laggiù, vince chi la colpisce più volte. Si dorme al pomeriggio perché c’è la mamma del sole che ruba i bambini e si beve il caffelatte la mattina, con il pane carasau o la crosta di pane. È piuttosto difficile diventare uomo, invece, in un piccolo paese dove tutti sanno che sei figlio di nessuno, il sottoprodotto di un’avventura, con un nonno come genitore che fa il teraccu e dice sempre le parolacce.
Lei era di Oristano e veniva fin lì per le vacanze estive. Una grande casa con il portico veniva riscaldata dall’umidità invernale con la sua presenza, dai suoi abiti a fiorellini stesi al sole, dal trillo del campanello della sua bicicletta, nuova fiammante regalo di promozione.
Era una creatura sublime, lei che non aveva filtri o pregiudizi. Lei che guardava Ciriaco come fosse l’unica cosa degna in quel paese di pescatori scalzi. Lei che lo prese per mano, in quel pomeriggio del penultimo venerdì di agosto. Era quasi festa, con le bandierine colorate appese ovunque. Con le bancarelle delle caramelle che sudavano zucchero e i bambini con i sandali nuovi e i capelli ben pettinati. La statua di San Salvatore era pronta per essere condotta nel piccolo borgo campestre e i fuochi d’artificio ben allineati per il grande spettacolo. Lo condusse senza dirgli neanche una parola, tra le canne e i giunchi che aspettavano il tramonto.
Si amarono senza riserve e a ogni festa di San Salvatore, per altri cinque anni, lei lo amava e poi partiva per tornare a Oristano e ai suoi banchi di liceale. Fino a che un’estate la sua casa rimase chiusa, l’edera si arrampicò sul portone, blindandolo per sempre.
Era stato un amore silenzioso, senza pretese e anelli di fidanzamento. Solo puro amore, e sperimentazione; sorpresa, ricerca dell’altro. Ciriaco non seppe più nulla di Cristina, anzi, a volte si chiedeva se fosse davvero esistita o l’avesse sognata.
***
“Kariasa è un nome antico”, mi disse quel dieci di maggio. “Ha origini greche, lo sapeva?”.
Io distrattamente cercavo i venti euro nella borsa, stanca dall’ennesima notte insonne. “Le avevo notate mentre viaggiavo verso Cagliari, quelle ciliegie meravigliose”.
“Non si preoccupi, me li porta la prossima volta”.
Sorrisi senza distogliere lo sguardo dalla confusione che regna sovrana e perenne nella mia borsetta.
“Percorrerà ancora questa strada e non sarà più tormentata come lo è oggi, andrà tutto bene”.
“No guardi, ce li ho, ne sono sicura”. Frugavo imbarazzata alla ricerca del portafogli, mentre pensavo che mi ero sicuramente fatta sfuggire la mia angoscia, la mia preoccupazione con questo sconosciuto e arzillo vecchietto. Mio fratello aspettava un trapianto.
“La 131 è anche la strada verso gli ospedali: Businco, Microcitemico, non mi ricordo l’altro… vero signò?”, insisteva, sentiva la mia diffidenza. “Ma lei scrive, vero?”.
“Oh, per diletto, mica mi pagano. Ecco, ho ritrovato il borsellino”, lo tiro fuori alzandolo al cielo come avessi vinto un trofeo. Mi cadono le chiavi a terra, sono imbarazzata, tremo, respiro male. E lui tranquillamente mi prende le mani e mi fa sedere dicendomi: “Ho una storia per lei”.
Inizia a parlare, mentre tutto intorno tace. Non sento auto, non c’è vento, non c’è sole, non c’è più il tempo.
La strada verso Cagliari è ancora lunga ma l’appuntamento è al pomeriggio. È che il traffico, la mia preoccupazione, ero partita presto, lo so che c’è tempo.
Mi ammalia, mi stordisce dalla prima parola. Il racconto di un bambino perfetto che è diventato uomo immortale. Condanna o privilegio, chissà.
Anni e anni di 131, a salvare anime e respiri. Ad aggiustare questo mondo storto, dove la retta via non esiste. “Manco la 131 è perfetta, lo sa?”.
Mi racconta com’è nata questa piazzola, indicandomi l’albero laggiù su cui leggeva e sbirciava sulla creazione di questa strada.
Mi spiega com’è l’asfalto, prima che il rullo lo stenda a terra.
Mi ricorda che una strada senza segnaletica è come un cielo senza stelle, e mi informa dove ci sono le uscite, i distributori, le inversioni di marcia.
Dove si fermano le coppiette, dove ci sono le tane dei conigli, dove passano i cinghiali per dissetarsi. Più avanti una piccola zona pericolosa quando piove. “Ci stia attenta”.
Lui sa tutto di questa strada, che per anni ho percorso senza sapere dove davvero mi portasse. Sa bene che ogni cammino non è casuale, né scontato. A ogni viaggio una causa e a ogni azione una conseguenza. “La vita è una strada, lo sa?”.
***
Quando il tempo delle ciliegie finisce e gli uccelli beccano le ultime produzioni degli alberi, tziu Ciriaco non ha più frutti da vendere e vite da proteggere. Solo nel mese di maggio, e chissà cos’aveva quella janas contro gli altri undici mesi, lui può aiutare e salvare anime sconosciute.
Undici mesi in cui se ne sta seduto nella corte della casa davanti alla Chiesa, aspettando l’autunno e l’inverno dopo, per l’eternità, annusando il cielo al rintocco della nuova ora; innamorato per sempre delle mani che profumavano di vaniglia di Cristina, nelle estati a Cabras.
“Lei partorì un bambino e i suoi genitori per bene lo fecero crescere in un collegio aristocratico, figlio illegittimo di due diciottenni incoscienti ma bravo e intelligente come pochi. Chissà chi era il padre, si chiedevano in tanti. Questo bambino è diventato uomo ed è il medico che ha salvato mio fratello, la mia famiglia, e me stessa”. No jaju Ciriaco, gli disse mentre spirava. Io ho un figlio, morite tranquillo, ché la vostra stirpe non è terminata come quella dei Savoia.
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Fateci caso, se passate sulla 131 nel mese di maggio.
C’è un anziano signore che siede su una seggiola sgangherata, vicino a una Panda quattroperquattro con il cofano aperto, vicino alla seconda uscita per Oristano e Santu Lussurgiu.
Vende kariasa, e scorge il vostro domani.