Cultura: "Racconti on the road", on line "Lo schianto" di Giulia D'Alia
Ogni settimana un racconto del primo certame letterario dell'Anas
LO SCHIANTO
Il braccio di Fracciu cadeva a penzoloni vicino al cambio. La testa reclinata, la bocca aperta. Non feci in tempo a superare il primo cavalcavia che mi trovai ferma, cambio in folle e piede sul freno, circondata da macchine roventi e strombazzanti.
Lo spazio di frenata fu così stretto che dovetti quasi inchiodare. Fracciu si svegliò per lo scossone e il suo fumetto cadde a terra.
Che è? . La sua voce uscì fuori acuta, si era impaurito; mi fece quasi ridere. Si guardava intorno spaesato.
Che è? mi ripeté. Io gli indicai la strada davanti a noi: i tetti delle auto si raccoglievano in un’unica entità cromata, s’incastravano perfettamente tra loro, quasi a fondersi, senza lasciare spazi vuoti.
Siamo fermi . Fracciu scandagliò la strada aguzzando la vista.
Che è successo? mi chiese, mi guardava. Si sforzava di capire.
Forse un incidente . Allora Francesco puntò un dito avanti con la faccia impressionata: dalle macchine accatastate l’una sull’altra, in lontananza si alzava una massiccia colonna di fumo nero così densa e imponente da far temere s’ingoiasse il sole. Era lontana, ma la guardavamo come fosse da noi.
Adesso ci restiamo le ore, qui dentro dissi. È finita.
Fracciu mi guardò profondamente preoccupato. Gli feci un cenno di lasciar perdere, che giocavo, e mi addossai al finestrino a peso morto.
All’inizio eravamo solo un ammasso confuso e agitato di volti esausti, rossi, sudati, che si gonfiavano come palloncini soffiando fuori l’aria, rimarcando lo sdegno. I dorsi delle mani asciugavano le fronti spossate, poi erano ovunque braccia molli che ricadevano dai finestrini abbassati, le mani penzolanti come corpi estranei, gli avambracci buttati sul volante, dietro finestrini sigillati per non far entrare neanche un filo di quell’aria calda e pesante, che puzzava di benzina.
La macchina faceva un rumore assordante e il motore, in folle e surriscaldato, mescolava aria calda a quella condizionata che usciva dalle bocchette. Fracciu abbassò interamente il finestrino e si sporse fuori buttando tutto il peso sulle braccia.
Vedo tutto da qui!
Ma che vedi…
Quel tratto di strada era uno dei più brutti, con i palazzacci sparsi a caso sull’uno e l’altro lato, con la boscaglia che si affacciava intorno e con i campi vuoti, più avanti, che puzzavano di smog ed erano gialli. Francesco non era più preoccupato. Adesso che cominciava ad ambientarsi, quell’atmosfera gli piaceva, lo elettrizzava quasi. Io mi preoccupavo piuttosto di quando saremmo dovuti andare al bagno. Mi sentivo poco bene. Negli ultimi giorni le mie forze andavano e venivano, mutavano senza preavviso, lasciandomi a volte svuotata come un fantoccio. Nel frattempo avevamo conquistato qualche metro d’asfalto, marciando a un ritmo esasperante. Guardavo i miei vicini, una famiglia accatastata in una Yaris, inserivo la prima, poi la seconda, di nuovo inserivo la prima, poi la seconda… Ci guardavamo di nuovo, voltavamo lo sguardo. Non c’era la confidenza. Finché non ci fermammo in un punto critico. Alla nostra destra c’era uno svincolo dal quale sfociava un flusso di motorini caldi. Poi s’inserivano altre macchine che arrivavano da chissà quali strade, ignare ancora di tutto. Rimanevano bloccate senza libertà di manovra, si ammucchiavano sulla curva e suonavano i clacson. I ragazzi sui motorini procedevano come nulla fosse per qualche metro e poco dopo capivano che c’era solo da fermarsi. Avevano gli occhiali da sole e le canottiere, sul sellino portavano ragazze con le borse grandi e le infradito; una di loro teneva un asciugamano sul braccio. Intanto sulla striscia bianca, poco più avanti, erano comparsi i primi coni segnaletici. Da un certo punto in poi la corsia di destra era chiusa al traffico, e le macchine mettevano frecce e davano gas, perché dovevano confluire tutte sull’altra corsia, ma pretendevano di farlo ciascuna subito e prima degli altri. Avanzammo di tre metri, poi ci fermammo di nuovo.
Fracciu teneva d’occhio la situazione senza stancarsi; era così assorbito da quello che gli accadeva intorno che sembrava si fosse dimenticato di me. Era particolarmente interessato ai ragazzi fermi poco più avanti. Gli piaceva il fatto che non stessero dentro le macchine. Avevano messo a riposare i motorini sui cavalletti e si erano tolti il casco, passandosi una mano sulla testa e rovesciando bottiglie sulle mani, sui polsi. Si appoggiavano sul sellino che scottava. Due di loro si avventurarono a piedi tra le macchine – Fracciu avrebbe voluto seguirli – i tre restanti parlavano con le ragazze: si conoscevano tutti. C’era puzza di benzina e di gas e in lontananza s’intuiva quella dei campi e dello sterco. Ogni tanto si alzava del vento a darci sollievo ma a me non bastava. Avevo spento l’aria condizionata, perché avevo paura che la benzina finisse. Il giorno prima non avevo fatto in tempo a fare il pieno. Quaranta gradi li faceva di sicuro, era la macchina a dircelo. Ma io ne sentivo di più: le nostre fronti erano costantemente asciugate e rivisitate dal sudore. Scendeva a gocce, piccole e lente. Non avevo modo di metter fine a quel meccanismo: mi asciugavo e non serviva a niente; il sudore si ricreava, quel mio gesto non valeva nulla. Riuscii a inserirmi nella corsia unica: adesso si stava fermi per davvero. Si scioglievano le nostre fronti e si scioglieva l’asfalto e noi lì, senza poter fare nulla.
L’unico aspetto positivo era che la Matiz era scomparsa. Sul finire della periferia di Roma, quando la Nomentana si assottiglia prima di sfociare nel Grande Raccordo Anulare, c’è un’ultima pompa di benzina, chiusa – le saracinesche sempre abbassate, in funzione solo il self service – sulla cui piazzola stava quieta, come dimenticata, una vecchia Matiz blu, sabbiosa, con una grande rete da pesca distesa sul tetto che calava sui finestrini. Pochi secondi dopo il mio passaggio, quella mattina, la macchina si è risvegliata accelerando con violenza, e la rete che riposava sul tetto è volata via afflosciandosi a terra. Poi con una sterzata si è immessa sulla Nomentana, ha percorso la mia stessa strada e mi ha seguita, mi ha seguita fino a qui.
Devo fare pipì.
Mi voltai, ci guardammo. In sottofondo la radio accesa, con il volume basso, passava una canzonetta folk americana. Il mio cd era finito da un pezzo.
– Non puoi gli dissi. Fracciu sgranò gli occhi.
Come non posso?
Vedi un bagno? Non puoi.
Ma devo farla.
Ho capito. Anch’io devo farla. Ma dove vuoi farla?
Fracciu rimase a fissarmi stupito.
Hai un’idea migliore che non sia farla in mezzo alla gente? gli dissi io. Era vero, non avevamo scampo: la Pontina già di suo è una strada stretta, in più adesso disponevamo di un’unica corsia su due. Sulla destra avevamo un guard rail arrugginito con dietro un selvaggio ammucchiamento di piante e cespugli, e sulla sinistra un muretto spartitraffico di cemento. Sull’altro senso di marcia gli automobilisti ci guardavano e correvano via. I bambini salutavano dal finestrino.
Francesco decise che l’avrebbe fatta fuori, che non ce la faceva più e che aveva visto che un ragazzo l’aveva fatta vicino ai motorini. Io m’imposi e glielo vietai. Lo esortavo a resistere, come fanno tutti i grandi. Mi guardai intorno: in più d’uno adesso erano scesi dalle macchine. Si sgranchivano le gambe, facevano una passeggiata zigzagando tra le auto, le mani poggiate sulle reni e il busto teso. Addirittura alcuni avevano fatto gruppo e chiacchieravano come fossero in veranda, fuori casa; facevano congetture, rimpiangevano il mare. Ebbi il coraggio di guardare a fondo nell’auto dei vicini, e vi trovai la famiglia. Il padre era un uomo basso e tozzo, con una calvizie da prete e una pelle tutta sudata. Era sceso dalla macchina per aprire il portabagagli. Poi era tornato con la borsa termica in mano e offriva ai suoi una pesca o un succo di frutta. A loro la scelta. I suoi bambini vegetavano sui sedili posteriori, depressi, poi la madre li chiamava con uno scossone e loro si affacciavano dai finestrini con le braccia tese e gli occhi stanchi. Francesco li fissava in modo diretto. Io li spiavo. Anche la madre scese dall’auto, aveva caldo; si passò una mano veloce tra i capelli e questi tremarono come una manciata di pagliericcio. Mi vide. Mi offrì dell’acqua alzando un bicchiere di plastica, io rifiutai.
Dove vai?
Vieni, scendi un po’ dissi a Francesco. Aprii e richiusi lo sportello. Le gambe finalmente dritte.
Lui saltò giù dal sedile e mi raggiunse vicino al cofano. Questo era l’incidente più grande in cui Fracciu si fosse trovato fino allora, e forse qualcuno era morto e lui non ci pensava. Non glielo dissi, per non rovinargli quel gioco.
Neanche a me era mai capitato di trovarmi imprigionata a quel modo sulla strada, o di vedere che tutte quelle persone scendevano e abbandonavano le macchine, come fossero le loro abitazioni. Mi appoggiai sul cofano della macchina anche se scottava e mi misi a guardare la strada. Lasciai che Fracciu facesse il giro dell’auto per sgranchire un po’ le gambe.
Non ti allontanare . Mi fece no con il dito.
Vedevo che molta gente s’incaponiva a risalire quel fiume. Si avviavano veloci, voltandosi più volte indietro con la paura che le macchine ripartissero. Nell’auto lasciavano qualcuno che sapesse guidare: una moglie, un amico, uno zio. Vidi solo un uomo, tra tutti, allontanarsi con calma. Sembrava un vecchio marinaio abituato al mare, al riflesso del sole sull’acqua. Camminava come a dire che per lui quel caldo non era niente. Si era tolto la maglietta mostrando il petto asciutto e abbronzato, la pelle cascante ma tirata al punto giusto: si vedeva ancora il fisico allenato di un tempo. Teneva in testa un cappelletto rosso con la visiera rigirata e indossava occhiali da sole con lenti rosse, poi un sorriso enorme, grinzoso, sornione. Gli piacevano le persone, o forse farsi guardare, e mentre si avviava tra le macchine verso la causa dell’ingorgo salutava tutti con quel sorriso, con quella mano grossa alzata. Sarebbe tornato portando notizie, li rassicurava. Quando mi passò accanto volle rassicurare anche me: fece un cenno con la testa e mi sorrise. Io alzai una mano in segno di saluto ma non dissi niente, e lui intanto si era già voltato.
Mi investì un’ondata forte di nausea. Dall’asfalto saliva un bruciore intenso che mi si avvinghiava ai polpacci, i piedi sudati nelle scarpe chiuse era come se si squagliassero, stretti dai calzini. Mi girò forte la testa. Poi arrivò il bruciore nei polsi, nelle caviglie, nel collo. Il dolore conosciuto veniva su a ondate, come violente ondate calde che sommergono la riva e poi si ritirano, sommergono la riva e poi si ritirano… Era la febbre.
Chiamai Francesco. Poi feci il giro dell’auto per prendere l’acqua. Aprii il portellone guardandomi intorno. Francesco non mi aveva risposto. Guardai il portabagagli ed era vuoto. Prima di rendermene conto urlai più forte. La borsa termica non c’era.
Francesco!
I miei vicini si voltarono a guardarmi. Mi spaventarono di più. Chiusi sbattendo lo sportello e mi girai più d’una volta sul posto. La testa girava insieme al corpo, sudavo caldo e sudavo freddo, intorno a me le auto cuocevano e ruotavano. Mi tremarono le gambe e mi appoggiai al sedile. Cercai la borsa termica tra i sedili ma non la trovai. Raschiai con le mani i tappetini sudici, me le impolverai, ripercorsi a tastoni tutta la macchina e intanto chiamavo Francesco, che non rispondeva. Non aveva mai risposto, dalla prima volta che l’avevo chiamato. Il padre della famiglia accanto si avvicinò con discrezione. Mi chiese se volevo aiuto. Mi voltai e vidi sua moglie, i bambini, e in primo piano la figura del signore con quell’aria affabile e rossa, sudata, che mi tendeva una mano, una mano sudata.
Non… mi veniva da piangere ma non lo facevo vedere. Scossi la testa. Non la volevo quella mano. E che la smettessero di fissarmi! Mi guardavano tutti con quell’aria apprensiva.
Hai perso qualcosa, stai bene? Stai cercando qualcuno? mi disse quello.
Risposi di sì, che cercavo il bambino che era con me, e anche che avevo sete e che mi serviva dell’acqua per prendere la pasticca. Ma già guardavo in fondo alla strada, mi rivoltavo e guardavo avanti. Poi vidi Francesco venire da lontano. Camminava tranquillo tra la gente, si guardava attorno e la gente guardava lui. Mentre la signora mi porgeva un bicchiere di plastica con l’acqua io scattai in avanti e corsi verso di lui. Mi feci largo tra gli sportelli lasciati aperti delle auto, scansando la gente. Mi arrabbiai con lui e subito dopo lo baciai; non sapevo nemmeno io cosa dovevo fare. Lui era mortificato, lo capivo dalla faccia ma non diceva nulla, solo qualche “Scusa”, a bassa voce. Tornammo indietro e bevemmo l’acqua dei vicini. Parlai un poco con loro mentre Francesco scambiava occhiate basse con i ragazzini. Durò poco e poi rientrammo in macchina; i vicini ci avevano chiesto di restare con loro, ma io tornai nell’auto perché mi vergognavo e volevo stare seduta per conto mio. Saliti in macchina Francesco scartò una merendina. Mi voltai di scatto e lo bloccai per il polso:
Dove l’hai presa?
Francesco mi rispose che gliel’aveva data una ragazza che stava dietro di noi.
Chi è? . Lui ancora non aveva morso la merendina.
Non lo so. Ma era gentile.
Dammela.
Ma… . Non gli diedi altro tempo e gliela strappai di mano.
Perché?
Dove l’hai presa?
Te l’ho detto, laggiù, dietro! . Indicò le auto alle nostre spalle.
Allora dimmi il colore della macchina . Tenevo la merendina sospesa in alto.
No . Guardò da un’altra parte.
Non ci provare.
Blu.
Annusai la merendina, puzzava. Che schifo . Me la misi in borsa.
Allora voglio il panino . Lo guardai.
Non abbiamo i panini. Ho scordato la borsa a casa . Lo ammisi.
Francesco mi guardò senza dire niente; mi aspettavo un urlo, una protesta, ma lui niente, mi guardava. E fu peggio. Mi resi conto di non conoscerlo affatto, e che sapeva parlare senza aprire la bocca. Non mi parlò finché non si sciolse l’ingorgo, né mi guardò. Rimase fermo e si addormentò. O forse fece finta.
Avanzammo ancora, ma non pareva che le macchine davanti avrebbero ripreso la marcia. Eravamo obbligati a star fermi, in quell’odiosa cattività fatta solo di puzza, di caldo, dello scintillio accecante del sole, che intanto dallo zenit aveva iniziato a cadere.
Le macchine puzzavano, erano già troppo vecchie; ed anche la strada era vecchia, troppo piccola, inadeguata. Spostavo in continuazione lo sguardo. Vedevo i campi lontani oltre il guard rail. Soltanto quelli, completamente vuoti, rimanevano per me gli stessi: né vecchi né nuovi, come fuori dal tempo. Li ho guardati a lungo, anche se da lì non veniva nulla; anche se erano caldi e vuoti e secchi, capaci solo di rispondermi con un continuo cicaleccio. Ma almeno laggiù non c’era la strada. E il cicaleccio mi dava sollievo, non mi faceva pensare.
Guardai Francesco: le palpebre sottili seguivano i movimenti veloci degli occhi. Chissà che vedeva…
Un giorno avevo deciso che l’avrei portato al mare. Saremmo stati solo io e lui, io e lui insieme al mare. Quando lo comunicai a mia madre, lei si agitò. Le dissi allora che saremmo andati in piscina, per tranquillizzarla, quella dietro l’isolato. No, non sarebbe venuta anche lei: saremmo stati solo io e mio fratello.
Quelli erano i giorni in cui Francesco guardava. Guardava le cose come se da quell’atto dipendesse l’intera sua vita, la sua stessa identità; come se guardando il mondo, le cose, queste gli si restituissero completamente rinnovate, e ogni volta una volta per tutte. Le notti erano difficili, Francesco non dormiva. Si addormentava tardi e si risvegliava prima che il sonno piombasse a stordirci. Così mi alzavo scalza, sudata nella notte, andavo in camera di mia madre e curavo mio fratello mentre lei, esausta, non sentiva più e riposava in posizioni contorte.
In piscina si stava bene. Mi ero svegliata presto e c’era un sole secco, l’aria ancora fresca delle prime ore del mattino. Ci facemmo sistemare dal bagnino sotto un ombrellone – che sia al riparo dagli schizzi, gli avevo detto – e ci stendemmo sugli asciugamani sopra i lettini. Francesco preferiva stare seduto. Ringraziai il bagnino. Quello era tornato sul suo trespolo bagnato e da lì aveva preso a guardarmi. Aveva gli occhiali da sole specchiati, come quelli dei velisti. Anche Francesco, l’ho già detto?, mi guardava. Mi guardava con insistenza, in modo schietto e sfacciato. Era uno sguardo di cui, forse, solo nell’età muta siamo capaci, poi dimentichiamo. Si portava la manina alla bocca e pareva contento, poi la sbatteva sul lettino, vicino alle gambe; si stupiva. Mi guardava dritto e di traverso, non sapeva far altro che guardarmi. Ma alla lunga mi irritava. Non sostenevo il suo sguardo perché non sapevo che rispondergli. E mi pareva ogni volta di non riuscire a capire.
Che pensi? volevo spiegargli chi ero, chi era lui, perché eravamo lì. Non sopportavo l’idea che pur guardando così a lungo non avrebbe ricordato nulla. Decisi che avremmo fatto il bagno. Decisi che ci saremmo tuffati. Lui sembrava più interessato a toccare le maglie dure del lettino, a sentirle nuove sotto ai polpastrelli, ma sentendosi chiamare mi guardò di nuovo e mi seguì con una dolce obbedienza. Mi stupii. Mano nella mano lo portai alla piscina per i piccoli, poco più che una pozza. Lui si ambientò presto, anzi subito; addirittura prima di me che tenevo i piedi a mollo seduta sul bordo. L’acqua era ancora fredda. Guardavo lui e gli altri bambini, seguivo i movimenti dei piedini nell’acqua. Un paio di bambine troppo grandi per quella pozza se ne stavano lì a girare tra i piccoli, li avvicinavano e chiedevano il loro nome; si divertivano a fare le mammine. Quando puntarono Francesco lo chiamai e lo feci uscire, portandolo quasi di peso verso la piscina grande. Lo feci aspettare lì davanti e andai a prendere i braccioli. Li gonfiai e glieli misi. Lui non voleva, mi era chiaro. Ma continuava a guardarmi, muto, mentre gli bagnavo le braccia per farle scivolare meglio nella plastica. Lui apriva e strizzava gli occhi, con le goccioline d’acqua e cloro sospese sulle ciglia. Mi tuffai senza molto riguardo, generando schizzi alti. L’acqua era bassa e toccai subito le mattonelle viscide. Poi mi voltai e chiamai Francesco. Lo schizzavo per gioco, piano piano, e lui si copriva con la manina. Adesso lui stava in alto ed ero io quella in basso. Lo guardavo da sotto in su mentre lui mi guardava dal bordo piscina, con quella pancia gonfia e buffa, mi guardava sempre più serio, come una sfida, mi guardava dall’alto. Io lo invitavo a tuffarsi, lo chiamavo, facevo le moine. Lo chiamavo ma lui non veniva. Scalciava impaziente, si voltava verso la pozza di prima. Allora presi a parlargli come a un adulto, in modo schietto e diretto, senza addolcire la voce; pensavo se lo meritasse, che fosse sveglio abbastanza. Gli parlavo a quel modo per farlo riflettere, volevo che capisse che nuotare nella piscina dei grandi prima di ogni altro bambino sarebbe stato bello. Perché mi guardava? Mi venne in mente quando le amiche di mamma venivano a casa e le dicevano: “Goditela Giovanna. Come ti guardano adesso non ti guarderanno mai più”.
Lo afferrai per una caviglia, era fresca e morbida. Poi lo abbracciai e lo portai giù con me, lui fece uno strillo. Dev’essere passato qualche secondo fuori dall’acqua, qualche secondo riempito dalle reazioni sgomente di alcune madri, donne che si rizzano sul lettino con la bocca semi aperta, spinte da un brivido lungo la schiena, scosse da scariche dentro le gambe; dal loro atavico istinto di protezione. Io sott’acqua tenevo gli occhi aperti: ho visto il volto di mio fratello contorcersi, come se un dolore troppo forte l’avesse schiantato. Durò poco, lo persi di vista. Attraversai una corposa colonna di bolle che mi fece il solletico e riemersi. In superficie il bagnino aveva pescato mio fratello perché piangeva. Il bagnino mi guardava sconvolto. Tutt’intorno al bordo piscina un chiacchiericcio indiscreto, sommesso, pesante, accompagnava gli sguardi che piombavano sulla mia testa da ogni direzione. Mi immersi di nuovo, soffiai fuori tutta l’aria dal naso e mi preparai a riemergere, per riprendermi Francesco.
Lo guardavo sul sedile accanto. Avevo alzato i finestrini e acceso l’aria condizionata, anche se c’era il rischio di finire la benzina. Non volevo che soffrisse il caldo, adesso dormiva davvero. Allora scesi dall’auto, mi guardai attorno e mi addentrai tra le macchine. Cercavo la Matiz blu.
Non sapevo se mio fratello ricordasse quell’episodio. Era molto piccolo allora, e io non ne ho parlato a mia madre. Non avevo idea se condividere il ricordo con Francesco sarebbe servito a qualcosa, come a farmi stare meglio, per esempio.
Camminando mi avvicinavo a un vecchio Cotral blu, il pullman per Latina. Dalla porta aperta spuntava timidamente un faccione giovane e indiano, con gli occhi grandi. Si voltò un istante per assicurarsi che l’autista non ripartisse senza di lui. Quello, esausto, gli diceva di andare con una mano. Allora il ragazzo si affrettava a raccogliere dal suo sedile una serie colorata di oggetti e, una volta saltato giù dagli scalini, si strinse le cinghie dello zaino ingombrante e si avviò tra la gente. Quelli lo guardavano stupiti, lui mostrava la sua merce com’era solito fare sulle spiagge. Passai accanto a una donna che si tirava su i capelli con un fermaglio, faceva un cenno al marito e diceva in dialetto: Ma questi pure qui ce li troviamo? . L’indiano fece finta di non capirne le intenzioni e proseguì per la sua strada, seguendo la direzione opposta alla mia. Faticava proprio come nei giorni migliori della stagione, quando gli stabilimenti sono pieni e i lettini arrivano in bocca al mare, specialmente quando si alza il vento da sud ovest e il mare si fa grosso, mangiandosi la sabbia.
Attraversare quel groviglio di macchine era molto faticoso. Provavo l’ansia che provavo da piccola ad allontanarmi in segreto dai miei genitori per esplorare la spiaggia. Più scendevo lungo la strada, più mi pareva di infognarmi, perché l’ingorgo si faceva più fitto e le macchine da lontano sembravano l’una accatastata sull’altra. A un certo punto capii che non si poteva più passare. La strada era così stretta, e le macchine così vicine, che le persone per prendere aria erano dovute uscire dai finestrini, arrampicarsi sui tetti della propria auto, oppure andare a sedersi sui cofani, stendendo chi un telo, chi un pareo per non scottarsi. Davanti a una Fiat Tempra mi dovetti fermare. Era incredibilmente vecchia e sul cofano trovai seduta una donna alta, con le gambe incrociate. Era magra ma aveva il collo gonfio. Occhi chiari come due pietre; naso piccolo e preciso, appuntito come un becco. Indossava anelli d’argento ed era vestita da zingara, era colorata, esuberante, ma lo sguardo era severo e mi guardava alzando il sopracciglio, accentuando le rughe sulla fronte. Le chiesi il permesso di salire sul suo cofano. Mi guardò attentamente con gli occhi che le si spalancavano, come se non riuscisse a controllarli. Poi sorrise e mi disse di sì. Faticai a trovare l’equilibrio, lei mi diede una mano e una volta in piedi cercai l’auto. Intanto le dissi brevemente cosa dovevo fare, tanto per informarla. Sentivo il suo sguardo dal basso, fisso in attesa di capire cosa stessi facendo. Dai tetti cromati si levava un bollore che scioglieva tutto l’orizzonte: dietro quel muro le auto tremolanti sembravano tutte uguali.
La signora ai miei piedi prese a parlare con i suoi vicini, un’accozzaglia di donne e bambini. Sentii toccarmi la caviglia e mi voltai di scatto: mi comunicava che dall’origine dell’ingorgo i pompieri dicevano che saremmo stati fermi ancora mezz’ora. Annuii e ringraziai: non sapevo neanche quanto tempo fosse passato. Guardando il sole sembrava pomeriggio inoltrato. Guardai meglio quelle donne sotto di me: c’era una madre con occhi chiari, infossati, come schegge di vetro incastonate nella roccia, o come telline aggrappate agli scogli, che brillavano da lontano. Era scura per il sole e intorno agli occhi la pelle era quasi nera, non sorrideva mai. Controllava guardinga i suoi figli, uno era secco e lungo come lei e si aggirava intorno all’auto silenzioso, come un cane. L’altra era piccola, rotonda e chiara, la pelle trasparente come una boccetta di vetro. Arricciava il naso, era molto tonda ma non grassa. La nonna la teneva in braccio e lei piangeva, si dimenava. Allungava le braccia e guardava la mamma; scalciava, urlava, voleva solo lei. Allora la madre impassibile, senza dire una parola, se la prendeva in braccio e l’accoglieva, guardandola dal fondo dei suoi occhi infossati. E intanto il sudore le scivolava sulle tempie, lungo il viso; e la figlia era rossa in volto, sembrava malata. Ma tra le braccia della madre era silenziosa come lei, guardinga come il fratello, e la nonna le guardava. Poi guardarono tutti me: io voltai lo sguardo.
Ero decisa a ritrovare la Matiz. E la vidi, a sei cofani di distanza. Salutai le signore di sotto e cominciai una scalata orizzontale, su un terreno accidentato di tettini roventi, un paio con il montacarichi, ai quali mi aggrappavo chiedendo permesso, allungando prima un piede poi l’altro sui cofani delle macchine che mi separavano dall’auto. Mi fermai in piedi sul portabagagli sporgente di una vecchia utilitaria grigia. Di fronte a me la Matiz sporca e sabbiosa. I finestrini erano abbassati, ma al posto del guidatore non c’era nessuno.
Allora aspettai.
Da lontano la gente si muoveva ma era come se quella vita non mi appartenesse. Si aggiravano riproducendo forme di vita consuete: i bambini giocavano, dormivano, piangevano; i genitori sospiravano, discutevano, si davano pacche sulle spalle. Mio fratello da lontano, forse, si era appena svegliato. Si poteva dire che anche lì trovarono il loro mare, tutti quanti. Più li guardavo, più mi convincevo che anche lì in mezzo avevano trovato il mare. L’avevano trovato uscendo dai loro gusci metallici, scambiando parole con gli altri, come fossero i vicini di ombrellone. Standosene tutti ammassati sotto il sole, a mangiare, a parlare, a badare ai bambini. Per almeno un istante, ognuno di loro si era sforzato di sollevare lo sguardo oltre quell’ammasso indecente di macchine ed era riuscito a fiutare il vento che veniva da sud, le rare volte che s’era alzato.
Voltandomi scoprii che s’era avvicinata una ragazza. Era stata molto silenziosa. Alta almeno quanto me, magra, quasi informe. Stava seduta sul tetto della Matiz, le gambe pallide cadevano a penzoloni sul parabrezza. Mi sorrise appena, senza mascherare un certo spavento: era chiaro che la stavo aspettando. Mi faceva sentire come se non avessimo dovuto trovarci entrambe lì. Cercai di presentarmi e lo feci con un certo imbarazzo. Presi a parlare comunque e mentre lo facevo la ragazza seguiva con attenzione esagerata i movimenti della mia bocca. Li seguiva con un fastidioso dondolio della testa, ma allo stesso tempo pareva distratta. Più mi guardava così, più mi innervosivo. Le dissi di come mio fratello fosse arrivato lì per caso, non so nemmeno come, visto quell’ammasso di cofani assurdo, e che si era allontanato dalla sua auto, che poi sarebbe la mia, e che era molto piccolo, che i bambini piccoli sono ingenui, e che quindi non avevo trovato, diciamo, corretto, da parte sua – la indicai – dargli quella merendina e lasciarlo andare via solo, voglio dire, non si era neanche preoccupata di accompagnarlo indietro, di aiutarlo a cercare la sua auto, e se si fosse perso?, e poi, veramente, perlomeno fosse sincera, ci aveva seguiti fin dall’inizio lei, dalla pompa di benzina sulla Nomentana, l’avevo capito che ci voleva seguire, e che lo aveva fatto fin dall’inizio, ma per quale motivo, ci conosceva?, che cosa voleva da noi?
La ragazza, che intanto non si era mossa di un centimetro, ostinata sotto il sole, quando finii di parlare scoppiò a ridere. Era stupita e imbarazzata.
I… I don’t speak italian, really . Sorrise, distante da tutto ciò che avevo detto, scusandosi solo di non potermi capire. I’m sorry.
Rimasi congelata un istante.
Cambiai espressione, cambiai il tono della voce, la postura del corpo. Avevo caldo e lo spazio striminzito nel quale mi trovavo mi faceva soffrire. Neanche volendo, tra quelle auto sarei potuta correre via. Ricordai di non aver preso la pasticca e le ondate di dolore ricominciarono. Biascicai delle scuse in inglese e feci capire facendomi piccola con il corpo che mi dispiaceva, l’avevo spaventata? La ragazza annuiva in silenzio, con un sorriso a labbra strette di chi non ha niente da dire. Non aveva capito. Salutai ancora una volta e me ne andai facendo rumore sui cofani. Non mi voltai.
Tornata nel mio settore vidi Francesco parlare concitato e sottovoce con i bambini della famiglia accanto. Si divertivano. Salutai i genitori con un cenno della testa e loro risposero entusiasti. Aprii lo sportello dell’auto per rientrare, quando mi accorsi di avere sete. Scesi e tornai dalla famiglia. Mi offrirono un bicchiere d’acqua, una crostatina e un succo di frutta, poi parlammo a lungo. Mi chiesero di me e io di loro.
Intanto da lontano veniva la musica. Un potentissimo impianto stereo prese a far vibrare l’aria, dall’interno di un’auto nera lucida, e sembrava vibrassero anche la strada, i cespugli e gli alberi intorno. La vedevo da lontano a cinque, sei macchine di distanza dalla mia. Il portabagagli era aperto per far vedere la cassa più grande: attorno si erano raggruppati alcuni ragazzi, quelli dei motorini che avevano sentito il richiamo e ci erano andati a piedi, per passare il tempo. Tenevano il ritmo monotono dondolando il collo mobile. Le ragazze intorno accennavano un movimento di fianchi, ma non si lasciavano andare e guardavano spesso per aria, ridevano tra loro. Quegli altri ridevano l’uno dell’altro quando si guardavano negli occhi, e si prendevano in giro per passare il tempo.
Quando da lontano si levò un coro di clacson, e le voci rimbalzarono dall’origine della fila fino a noi in un rimando di grida incredule, salutai la famiglia della Yaris. Rimontammo in auto e, uno sportello chiuso dopo l’altro, si riaccesero i motori, il sole, un fuoco enorme all’orizzonte; poco dopo il traffico riprese a muoversi. Avanzammo prima a singhiozzi, non inserendo nemmeno la seconda; poi seguì un’accelerazione, mano a mano più costante, finché non ci avvicinammo alla causa dell’incidente.
La corsia ancora unica era adesso un tapis roulant di macchine silenziose. Una processione. Avvistammo qualcosa: una carcassa d’automobile, uno scheletro fumante e carbonizzato sul lato destro della strada. Un gruppetto d’uomini si concentrava poco dietro l’auto, sulla linea bianca spartitraffico; facevano segno di passare, di scorrere, non dovevamo fermarci. Agitavano le braccia con il fare coreografico dei vigili del traffico, non volevano farci guardare. Indossavano guanti grandi e pesanti, che facevano sudare le mani. Uno di loro urlava al cellulare, guardava nel vuoto e diceva che la situazione s’era sciolta. Passammo accanto alla macchina bruciata. Francesco posizionò il mento sul dorso delle mani, appoggiate dove il finestrino era abbassato. Vedemmo i vetri scoppiati, la carrozzeria accartocciata, nera. Le ruote disintegrate e i passaruote scomparsi. Spandeva odore di benzina e di gomma bruciata. Il cofano era spalancato, nero, come una bocca dischiusa che ha esalato l’ultimo respiro. All’interno non c’era più nessuno.
Pensai che tutti, passando di lì, ci saremmo posti la stessa domanda. La famiglia della Yaris, quella madre esausta con gli occhi infossati; la donna sulla Tempra, la straniera della Matiz. Il marinaio, l’indiano, i ragazzi dei motorini.
Dove sono i morti?
Mentre la voce di Francesco usciva tremula, acuta, e mi poneva la domanda, immaginai nella sua tutte quelle degli altri. Dove sono i morti? Finalmente riascoltavo la sua voce.
Guardava fuori e mi dava le spalle, interamente sporto dal finestrino. Guardavo anch’io.
Ipotizzai che forse si erano salvati.
Concludemmo la processione in silenzio e non sapemmo più altro. Poco più avanti la camionetta rossa; dal suo ventre si srotolava la pompa, giaceva sull’asfalto come la lingua di un animale esausto.
La velocità aumentò, finché la strada non si allargò adagio e abbracciammo correndo le corsie sgombre. Scivolavamo sull’asfalto liberi. Lasciai i finestrini abbassati affinché il vento corresse; che prendesse piede assieme al frastuono, che mio fratello si godesse quell’aria e che si voltasse poi, che mi guardasse di nuovo.
Arrivammo mentre il sole già scendeva oltre il mare. Avevamo fatto tardi e l’appuntamento con l’idraulico era saltato. Concordammo con mamma che per cena saremmo andati a trovare i signori Pezza del villino accanto, che tanto chiedevano sempre di noi, se ci eravamo fatti grandi. Ogni anno ci vedevano sempre di meno dietro le lenti spesse, e ciabattavano dal giardino alla spiaggia, dal primo sole di Giugno all’ultimo spiraglio di Settembre. Parcheggiai la macchina sotto casa, la spensi. L’idraulico sarebbe tornato il giorno dopo, la mattina presto. Noi lo avremmo aspettato e saremmo tornati a Roma prima di pranzo. Francesco era esausto. Lo ero anch’io. Ma ci venne voglia di camminare fino al mare.
Non eravamo attrezzati per la spiaggia ma il mare era lì, e noi gli eravamo davanti. Le uniche cose di cui ci curavamo erano l’acqua tiepida della sera, la sabbia fresca, il grande sole e il grande cielo che si coricavano come animali stanchi. Si faceva sera e s’alzavano odori di sale e di pesce. S’imprimevano nella sabbia bagnata, nel vento tiepido, nel legno del chiosco dietro di noi; nelle nostre mani umide. Restammo in silenzio, seduti l’uno di fianco all’altra, nella stessa posizione con le gambe abbracciate. Da lontano venivano i passi lenti di un ultimo bagnante che sollevava la sabbia e vi affondava ad ogni passo; sotto il braccio l’ombrellone appena sfilato.
Guardai mio fratello e pensai che mi somigliava. Non gli dissi che sarebbe diventato zio; che di lì a nove mesi io sarei stata una madre e lui un piccolo zio. Non glielo dissi quella sera perché di quella sera sarebbe rimasto solo il mare.
Si levò cauto, in un concentrato silenzio. Lanciò un’occhiata al mare poi guardò me. Io lo guardavo da sotto in su e senza che nemmeno parlasse gli dissi: Vai . Lui prese la rincorsa e si schiantò nel mare. I vestiti gettati sulla sabbia. Poi soffiò un vento da terra che lisciò l’acqua. La testa di Francesco rimaneva sotto e io pensai che avevo voglia d’immergermi, di nuotare; di andare a largo e di nuotare.
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