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Briciole di pane

Cultura: "Racconti on the road", on line "Pensa se adesso nevicasse" di Irene De Marco

Ogni settimana un racconto del primo certame letterario dell'Anas

 

PENSA SE ADESSO NEVICASSE

 

La vita in città scorreva sempre lenta, silenziosa. Forse perché Lahinch non era un luogo turistico e si estendeva per pochi impopolari chilometri di costa, prima di morire in uno sterminato prato sempre verde.
La Kincora Road arrivava fino a lì. I bambini più piccoli che all’ora di pranzo giocavano a calcio sull’asfalto pensavano che il mondo finisse con la fine di Kincora Road. Che quel segnale stradale che indicava una via senza uscita fosse in realtà l’unica colonna d’Ercole superstite in un mondo che cessava di esistere fuori casa loro. Vi erano piccole leggende che si rincorrevano tra le abitazioni, raccontate da nonne e fratelli più grandi, moniti e raccomandazioni, quelle che circolavano su quella strada: i leprecauni e le pentole d’oro, le fate, i mostri, quelli che non si nascondevano sotto i loro letti, ma al di là di quel confine tracciato dai fondatori per impedire ai bambini di scappare dalle loro case.
Io la amavo, Kincora Road. Si fermava all’improvviso, senza muri, recinti o cancelli. Inaspettatamente l’asfalto diventava erba, la segnaletica sassi, gli esseri umani bestiame. Io mi fermavo lì con lei, dopo il lavoro, mentre tornavo a casa, e osservavo ogni villetta dipinta di colore diverso, immaginando chi abitasse al suo interno e chi invece vivesse al di là di quel prato, nella città più vicina. Sognavo ogni notte di attraversarlo a piedi quell’ostacolo naturale tra me e l’avventura, ma non avevo mai il coraggio di prendere la macchina e lasciare le tracce dei miei pneumatici sull’erba.
Il mio luogo preferito, sulla Kincora Road era il pub all’angolo con Kettle Street, sempre vuoto a ogni ora in cui mettessi i piedi al suo interno.
Le luci fioche, calde, le panche di legno, gli stendardi irlandesi, i trifogli verdi, le pinte vuote. Aveva un aspetto desolante, abbandonato, come se fosse frequentato da non vivi.


Io entravo lì dentro ogni sera, prima di tornare a casa e dopo aver camminato fino alla punta estrema di quella via per ammirare l’infinito che si svelava ai miei occhi. Mi bevevo uno scotch liscio al bancone intarsiato dalle chiavi di chissà quale avventore – scritte romantiche, bestemmie in gaelico, numero di telefono di ignari amici. C’erano sempre bicchieri con macchie di rossetto crepati davanti alla ragazza che serviva tutti i giorni. Portava i tacchi alti con disinvoltura e i capelli rossi legati in una treccia morbida sulla spalla sinistra. Mi salutava sempre con quel suo accento del sud strascicato tra i denti e la canottiera slabbrata e io ammiravo l’uroboro verde che portava sulla clavicola con classe, nonostante fosse una delle bariste più rozze che avessi mai conosciuto.
Il suo fidanzato, un omone pieno di tatuaggi e rasato sulle tempie, la chiamava Mughain. Io non avevo mai imparato il suo nome, ma immaginavo che se qualcuno ritenesse appropriato chiamarla Luna, un motivo ci dovesse essere. Solo che io non lo conoscevo, come non conoscevo l’esatta pronuncia di quella parola gaelica. Non ero irlandese, neanche dopo diciotto anni passati a Lahinch, a passeggiare tra i suoi scogli e a maledire il suo vento.
Lo scotch sapeva sempre di polvere, anche se non capivo come fosse possibile. Mughain puliva il mio bicchiere proprio davanti ai miei occhi, subito prima di riempirlo, ma rimaneva comunque il retrogusto di muffa e vecchio tra le sue sfumature aranciate. Io lo bevevo senza lamentarmi. Posavo il mio taccuino da viaggio sul bancone e lei cercava sempre di spiare cosa ci scrivevo su. Mi chiedeva perché lo chiamassi taccuino da viaggio, se avevo messo le radici a Lahinch da tutto quel tempo, senza viaggiare più. Non ero neanche mai tornato a trovare i miei genitori, a Londra: un paio di chiamate a settimana e a Natale mi raggiungevano loro, con mio fratello Luke e la sua famiglia.


Luke era sempre stato il preferito a casa. Il più piccolo, il più viziato. Il figlio perfetto che io non riuscivo a essere. Quello a cui era stato dato un nome che non fosse appartenuto a una vecchia zia defunta pochi mesi prima della sua nascita, nessun orribile appellativo femminile ad accompagnarlo durante l’infanzia e l’adolescenza. Era proprio il suo nome, la cosa che più invidiavo di mio fratello: quello di Luke era mascolino, come lo era tutto di lui, nonostante fosse di una bellezza e intelligenza discreta non facile da trovare in un mondo in cui tutti vogliono essere tutto. Non so cosa Luke volesse essere, ma riusciva comunque a diventarlo e allo stesso tempo a ricoprire semplicemente il ruolo di mio fratello.
Ricordo quando l’avevo portato al pub la prima volta. Erano passati pochi giorni da Natale e io sentivo la mancanza dei tavoli sporchi e dei vecchi ubriaconi di paese di cui mi piaceva annotare abitudini e stranezze sul taccuino. Luke pensava che Mughain fosse la mia donna. “È il tuo tipo”, mi aveva detto. Di certo non era il suo, con quei tatuaggi colorati e i capelli così deliziosamente rossi; troppo poco perfetta, classica, bella. Ma non era la mia ragazza. Allora stava ancora con l’omone tatuato che mi lanciava occhiate torve ogni volta che mi scorgeva seduto al bar, come se fossi l’uomo che avrebbe portato via l’amore della sua vita. Il vecchio scrittore inglese che ci prova con una ragazzina, seducendola con versi antichi e nuovi, parlandole di altri mondi, altri uomini, promettendole di saziarsi di vita ogni giorno, attraverso parole altrui.
All’epoca mi sembrava assurdo anche solo pensare che Mughain potesse interessarsi davvero al mio taccuino, figuriamoci ad altro. Era solo curiosa e io mi divertivo a rispondere a ogni sua domanda: sull’Inghilterra, sul punk, su come fosse Sid Vicious dal vivo e se la sua faccia da topo fosse davvero tanto bella o fosse solo il fascino del musicista morto. Era raro che qualcuno ci disturbasse, mentre parlavamo. I clienti erano sempre di meno, con l’arrivo dell’inverno. La neve bloccava tutti dentro casa, davanti ai camini e a una tazza di tè bollente, circondati dai propri cari. Tutti tranne me, che guardavo le lancette dell’orologio muoversi nel quadrante per tutto il giorno, aspettando solo il momento in cui avrei imboccato la Kincora Road, prima di entrare nel pub.
E quando il momento arrivava, non deludeva mai.

 


«Toph non ama particolarmente gli strapiombi e non guarda giù, ma in realtà qui stiamo guidando in cielo, con le nuvole che arrivano a sfiorare la strada e il sole che fa capolino da dietro, e cielo e oceano sotto di noi» . Mi sento come i fratelli Eggers, certe volte, quando affianchiamo le scogliere. Tu no? Ci manca solo la decappottabile. Però non abbiamo regole. Potremmo vivere in uno scantinato senza mobili, senza televisione, senza cucina, comprare cibo in scatola nei 7-eleven che incontriamo per strada, giocare a chi vede più macchine rosse. Eccone una.
- Ero distratta, non vale.
- Non devi distrarti. Devi goderti tutto, vedere tutto. Ricordare ogni particolare, aiutarmi a descrivere ciò che mi sfugge, raccontarmi il tuo punto di vista. Devo scrivere un romanzo che sia grande e tu devi esserne la musa, la protagonista, la voce. Gli occhi che guardano il mondo attraverso il finestrino di una macchina, attraverso il mirino della vecchia polaroid che abbiamo comprato a Carndonagh, gli occhiali da sole a forma di cuore… A volte mi sento più Humbert Humbert di Eggers. Tu non ti senti un po’ Lolita?
- Tu non mi ami.
- Oh, Mughain… Io grazie a te ho imparato cosa fosse l’amore.

Un giorno Mughain aveva litigato con il fidanzato, durante il suo turno. Io ero lì e avevo tentato di origliare con discrezione, guardando il mio bicchiere quasi vuoto e scrivendo alcune delle parole in gaelico che riuscivo a carpire. Il tono di voce di lei raggiungeva picchi insospettabili per una ragazzina così minuta; l’altro invece le sbraitava contro con voce cavernosa e irritata. Parlavano di un leanbh. Un bambino. Quando Mughain era tornata nel pub, con gli occhi lucidi e i capelli bagnati dalla pioggerella estiva che non dava pace all’Irlanda da giorni, si era riempita un bicchiere di scotch, l’aveva fatto scontrare con quello che tenevo io tra le mani e mi aveva guardato seria. Fin troppo seria, di quella serietà che nasconde l’irrazionale desiderio di compiere qualcosa di folle.
“Andiamo”, gli avevo detto e lei mi aveva seguito, senza porre domande, dopo essersi tolta il grembiule e sciolta la treccia. Ora i suoi capelli rossi la inseguivano disordinati, mentre ci avvicinavamo alla mia macchina. Era una Plymouth Satellite rossa del ’71, la macchina dei miei sogni. L’avevo comprata usata un paio d’anni prima, da un tizio che non aveva neanche più l’età per superare i test fisici della patente. Il mio orgoglio. Luke continuava a dire che era per colpa sua se ancora non mi ero sposato: molti serial killer avevano ucciso dentro macchine come quella e le donne se ne tenevano alla larga. Io dubitavo che le provinciali fanciulle del Clare fossero avvezze di storie di stragi oltre Oceano come lo eravamo stati noi da ragazzini.
“Il costume da clown è nel portabagagli, John Wayne Gacy?”.
Mughain però era particolare e curiosa e si cibava di racconti folli da quando era bambina. Dovevo immaginare che conoscesse storie di ogni tipo, anche quelle più spaventose. Avevo riso alla sua domanda e lei era entrata dalla parte del passeggero, senza sapere dove fossimo diretti.
Non ne avevo idea neanche io, ma continuavo a pensare che era arrivato il momento di esaudire quel sogno nel cassetto che custodivo sin da ragazzo. Con o senza di lei, avrei fatto quel viaggio senza meta né itinerari, tappe o cartine. Avrei girato l’Irlanda, senza autostrade a intralciare la mia Plymouth, con un disco degli Eagles da cantare senza fiato e su cui stonare a ogni nota.


“Partiamo”.
Mughain mi avrebbe seguito, lo avevo capito dal momento in cui si era sciolta i capelli, forse dalla prima volta che avevo visto le sue numerose lentiggini mangiarle le guance dopo una giornata di sole. Aveva sorriso, alzando il volume della radio e non era voluta passare a prendere vestiti da casa.
Avevo acceso il motore, la radio, sistemato lo specchietto retrovisore ed ero partito, e lei accanto a me seguiva la Kincora Road con lo sguardo, senza capire perché andassi dritto verso il nulla, contro quella distesa di verde infinita. Non mi fermai. Andai dritto, con le ruote della macchina che faticavano a farsi strada nell’erba e la pioggia che scendeva, sempre un po’ più forte. Superavo con Mughain al mio fianco e una canzone sconosciuta come colonna sonora quella strada e quel paesino, il pub all’angolo con Kettle Street, il fornaio che non parlava gaelico, il vento, il reverendo O’Neall, i limiti che quella stradina senza uscita mi dettava e quelli che io mi ero autoimposto.
Con Kincora Road alle spalle e l’Irlanda davanti.



Eravamo partiti all’avventura, senza direzioni da seguire, con gli occhi aperti sulla strada che si muoveva con noi e le macchie indistinte di alberi che ci sfrecciavano accanto senza distinguersi le une dalle altre. Lei, con i piedi sul cruscotto, parlava e leggeva ad alta voce i libri che tenevo in macchina, nascosti sotto i sedili. Joyce, Bukowski, Hesse e tra loro i racconti di viaggi da cui trarre ispirazioni per il nostro. Leggeva Eggers per ore, ridendo e asciugandosi gli occhi lucidi, mordendosi le labbra, mentre io guidavo e la guardavo di sfuggita, tra una curva e l’altra.
Il cielo davanti a noi era infinito e ingurgitava chilometri di strada, asfaltata o di campagna che fosse, tra i campi e i fiori, a ridosso del mare, sempre senza una precisa idea di dove fossimo. Mughain faceva domande, chiudeva gli occhi sotto il sole, mi chiedeva di fermarci a ogni paesino che incontravamo. Forse in due settimane non avevamo fatto più di cento chilometri, perché ogni angolo di Irlanda le sembrava un pezzo di casa da voler custodire per sempre. E ogni volta che ci fermavamo per più di due giorni, si tatuava qualcosa addosso. Un trifoglio, un nome, un oggetto particolare, la frase di uno dei libri che compravamo. Piccoli disegni all’apparenza senza significato, ma che per entrambi raccontavano una storia senza fine, accompagnata dalle parole che scrivevo ai margini dei libri, tra le intercapedini dei pensieri altrui.
Come se viaggiassimo per riempiere ogni vuoto e ogni silenzio e ogni cassetto di canzoni rock e vite nuove, per colmare le mie crepe e le sue voragini, il Gran Canyon delle paure che la portavano lontana da casa, con un uomo più grande di vent’anni e un bambino in grembo.
A noi però non sembrava mai di scappare.

 

“Pensa se adesso nevicasse”.
“Ma è agosto”.
“Non importa. Tu pensa se adesso nevicasse. Cosa faresti?”.
“Non lo so… Forse mi fermerei alla prima stazione di servizio per comprare una felpa”.
“No, no… Pensa se nevicasse, ma la neve non fosse fredda. Se non avessi bisogno di riscaldarti. Se adesso nevicasse…”.
“Canterei”.
“E basta?”.
“Ballerei anche…”.
“Pensaci… Se adesso nevicasse… Adesso. Tutto potrebbe succedere… Qualsiasi cosa. Potresti volere qualsiasi cosa. Cosa vorresti?”.

 

Dopo un mese o forse pochi giorni, ne riconoscevo ogni sfumatura. Il labbro che si alzava di disgusto quando sentiva odore di carne, il tirarsi le ciglia piano quando qualcuno la disturbava, il toccarsi i polpacci mentre leggeva un passo che amava particolarmente. Si sistemava ancora i capelli in una treccia, ma ora era più stretta e aveva una nuova forma, qualcosa che aveva provato a spiegarmi mentre viaggiavamo verso Coleraine. Non seguivo i suoi discorsi, ma mi incantavo a osservare i suoi capelli illuminare la strada sotto il tramonto. Gli U2 gracchiavano nella radio qualcosa e io mi ero fermato in mezzo alla carreggiata per farle una foto. Una sola, con la polaroid che soffriva il caldo sotto il suo sedile, come tutto il resto, ammassata insieme ai libri.
Io non amavo gli U2. Quella però era la sua settimana per scegliere la musica e quando quel giorno avevo sentito Bono cantare With or without you avevo tirato un sospiro di sollievo. I suoi gusti musicali non erano raffinati come quelli in materia letteraria. A volte, soprattutto quando pioveva, era ancora la ragazzina rozza del pub di Lahinch, quella ragazzina con i suoi idoli adolescenziali e le canzoni preferite dai testi dolci e le melodie morbide. Le avevo fatto ascoltare ogni cosa potesse avvicinarla a un gusto più maturo, ma le pietre miliari del rock che tanto avevo amato da giovane, lei le disdegnava con smorfie nascoste ai miei occhi, per non offendermi. Io ridevo di quel suo infantilismo tenero e delle occhiate sospette che lanciava ai miei CD, impilati in disordine nel cruscotto di fronte a lei.
In realtà, poi, finiva sempre per ticchettare le dita sul cruscotto e per mordersi le labbra, o grattare via le pellicine dalle unghie. Sembrava in imbarazzo e non cantava mai. Adoravo guardarla in quei momenti: era quella sua aria spaesata ad avermi convinto a portare lei con me e non qualcun altro. Il modo che aveva di non arrossire, ma di guardarti dritto negli occhi e parlare di altri argomenti.


Non sapevo se era cambiata da quando eravamo in viaggio, se la maternità la stesse addolcendo, se fosse sempre la stessa e solo io a guardarla diversamente. Ora sapeva tenere le sigarette tra le punte delle dita senza bruciarsi e soffiare un po’ di fumo alla volta senza strozzarsi. Camminava dritta, teneva il mento alto e il petto in fuori e non strascicava gli anfibi sull’asfalto. Era bello imparare ogni dettaglio di lei ed essere certo di poterla disegnare a occhi chiusi, e ogni giorno, al tramonto, scoprire una lentiggine diversa sulla sua nuca, nascosta tra i tatuaggi. Imparavamo così a vivere l’uno con l’altro e ogni altra cosa che bisognasse sapere, senza dare adito alle maldicenze di chi nei paesi in cui ci fermavamo ci additava come peccatori, senza avere mai il coraggio di chiedere conferme. Ci lasciavano in quel limbo di amicizia dove ci eravamo ben accomodati, senza neanche sfiorarci mai. I provinciali abitanti delle cittadine irlandesi non riuscivano a immaginare la purezza di un amore come il nostro: alcuni credevano addirittura che fossi suo padre e che la usassi per sopperire alla mancanza di una moglie.
Luke a volte mi chiamava, quando si ricordava che suo fratello era disperso da qualche parte dell’isola. Mi chiedeva sempre di Mughain, di come andasse la gravidanza, se mangiassimo abbastanza, se finalmente mi fossi deciso a farmi avanti. “È il tuo tipo”, continuava a ripetere, e io ogni volta ne ridevo di quella frase così strana, ma anche così vera.
Mughain era il mio tipo. Quel tipo che ti asseconda in ogni follia e ride con te quando la macchina si ferma nel mezzo delle campagne senza più carburante, in uno sbuffo di fumo grigio e gorgoglii cacofonici. Il tipo di persona che legge per me mentre guido e prova a immaginare un agosto pieno di neve, con le impronte dei nostri piedi scalzi lasciate in bella vista, come se camminassimo su una spiaggia senza fine.
Ogni cosa era possibile, dentro quella macchina e nei pub senza clienti e nelle catapecchie in cui dormivamo, anche riposare tranquilli sopra un nido di vespe.
Ed era come se nevicasse ogni giorno, sotto il cielo d’Irlanda.

 

“Cantare”.
“E poi?”.
“Ballare”.
“Cos’altro?”.
“Essere magra. Aggraziata. Un amore epico. Scrivere un libro. Cantare”.
“L’hai già detto”.
“Voglio davvero cantare”.
“E allora canta”.

 

Era la fine di luglio e la sua pancia era gonfia come i palloncini che le piaceva ammirare nelle fiere estive dei paesi in cui ci fermavamo. Osservava il mondo colorato, le giostre, i sorrisi dei bambini che vincevano i pesci rossi e si illuminava di una gioia che solo una ragazza come lei sembrava ancora conoscere. Il sole era alto, non pioveva da giorni e noi ci dirigevamo verso Dublino, sognando la Liffey e le luci della città riflesse sulle sue acque mai pulite. Era la fine di luglio la prima volta che Mughain aveva cantato.
Aveva chiuso gli occhi e c’era stato un momento, uno solo, in cui la sua voce era uscita forte e si era annullata contro le nuvole sopra di loro. Era bassa e graffiava qualcosa tra il cuore e la gola, come la voce di una rock star anni ’80; aveva i capelli al vento e le mani strette sulla sua pancia e cantava sulla voce di Bono come se non avesse mai fatto altro che quello, esibirsi solo per me, per il cielo d’Irlanda, per i prati verdi e le cittadine deserte il venerdì sera, in cui bevevamo succo di mela e whiskey fino al mattino, seduti da soli a un tavolo appartato, con i nachos caldi a farci compagnia.
Graffiava qualcosa, quella voce, con le unghie che si aggrappavano alle rocce dei nostri muri mai abbattuti, alle labili pareti dei nostri sentimenti mai sbocciati e grattavano via la paura di riscoprirli nelle pause tra le note.


Mughain cantava e io guidavo, ascoltando quella voce e viaggiando verso l’orizzonte, verso Dublino, verso il mare che si estendeva fino all’infinito e anche oltre, accanto a noi, e io non la imitavo. Restavo in silenzio, tra i denti le parole di una canzone, e a tratti distoglievo lo sguardo dalla strada, ma lei stringeva di più la sua pancia, come avesse paura che quel bambino si facesse male, il bambino che non aveva voluto, ma che era diventato il terzo compagno di un viaggio che ci avrebbe portato ovunque, fino a casa, fino ai confini di quel mondo che non volevamo accettare, fino alla fine dell’estate.
Lo capivo in quella macchina, quel giorno, con il sole che riscaldava la mia Plymouth e la sua voce che copriva quella che usciva dalla radio, che mio fratello aveva ragione, che Mughain era il mio tipo, che forse l’avevo amata davvero, il primo giorno in quel vecchio pub sempre deserto, tra i sorsi ammuffiti di una birra andata a male, con gli occhi appannati dalla stanchezza e un taccuino tra le mani; sulla Kincora Road, quando oltrepassavamo il suo segnale di divieto e ridevamo, finalmente liberi; quando per la prima volta si era avvicinata a me, con i denti un po’ storti, senza nessuna grazia né eleganza, ma con la vita che scorreva nei suoi occhi e tra i fili rossi della sua treccia. Ed era stata mia, nel modo più vero in cui avrei potuta averla, con il profumo di libertà sulla pelle.
Avevano lasciato aperta la sua gabbia e lei era scappata via, ma aveva deciso di portarmi con sé, di seguire il professore inglese sconosciuto della sua piccola cittadina, che sedeva ogni giorno al bancone per dipingere con le parole il colore vero delle sue lentiggini.
E ci ero riuscito, riempiendo tutti i taccuini che avevo comprato in ogni città, a scrivere la sua storia, la storia di Mughain. La storia della sua pancia che cresceva e dei suoi gesti che maturavano, la storia di un viaggio che ci aveva portati ovunque su un’isola che le apparteneva e che io avevo imparato ad amare attraverso la sua voce che me la raccontava.


E quando scoprivo, mentre Mughain cantava, che ero io, intrappolato tra le sue spire, a seguire i suoi sogni e renderli miei, coprivo la melodia anche io, con la mia voce più bassa e stonata. Lei rideva, tra le note, e i capelli volavano intorno al suo viso e le lentiggini prendevano vita e danzavano con noi e con le sue mani al cielo.
E io sapevo che sarebbe stato il nostro ultimo viaggio, quello in cui avremmo cantato insieme. Dublino sarebbe stato quel punto di arrivo che non avrei voluto mai conoscere, ma che era destinato a frapporsi tra noi, come l’erba che cresce alla fine di Kincora Road, in quel luogo che nessuno dei due più chiamava “casa”.
Perché casa era quella macchina e le sue ruote e i CD sparsi sotto il cruscotto, i taccuini sporchi di inchiostro e impronte di grasso di quella volta che avevamo bucato, il tettuccio sempre alzato. Il cielo d’Irlanda era casa nostra, la culla in cui avremmo voluto far crescere i nostri figli.
E il suo nacque lì, alle porte di Dublino, sotto quello stesso cielo.

“Come lo chiamerai?”.
“Non lo so ancora. Forse Dave?”.
“È anonimo per il figlio di una donna come te”.
“Non lo chiamerò Demian”.
“Dagli un nome in gaelico. Come si dice viaggio?”.
“Taisteal”.
“E se fosse una femmina?”.
“Sarà un maschio”.
“E se fosse una femmina?”.
“Si chiamerà Éire”.
“Come Irlanda?”
“Come casa”.
*

Londra è grigia. La nebbia e il suo cielo e gli occhi di chi corre per la metropoli senza fermarsi a guardarsi intorno: è tutto grigio. I mercati e i quartieri e i pub sono le uniche macchie colorate nell’indistinta malinconia che provo ogni giorno da quando sono tornato. Ma nessuna strada o quartiere o locale, è come quello in cui ho passato le mie serate, aspettando che ti avvicinassi e mi chiedessi di ordinare, con la tua treccia ballerina e l’uroboro tatuato sulla spalla. Qui lo scotch sa di scotch e i bicchieri non sono macchiati, la muffa sparisce sotto abili colpi di strofinacci lindi di baristi più attenti e più silenziosi e più anonimi. Non esistono strade che si perdono nell’infinito, solo ragnatele di asfalto che portano da qualche parte.
Qualcuno mi ferma e mi chiede di te, lo sai?
Gli dico che stai bene, che canti ancora, ma non te ne vergogni mai. E che ogni volta che lo fai, sembra come neve d’estate e gli dico che ogni cosa è possibile, se tu hai cantato. Mi piace vedere i loro volti quando parlo di te. Sorridono, sorridono sempre e anche se Londra è grigia, mi sembra di vedere i tuoi capelli illuminarla d’Irlanda.


Il libro sta andando bene e come ti ho promesso, ogni volta che firmo un autografo, aggiungo il tuo nome accanto al mio. La gente ancora mi chiede come ti chiamassi veramente e io sono contento di non averlo mai scoperto, di lasciare nella mia mente intatta l’immagine di te pallida come la luna, ma molto più bella.
Un po’ come la notte in cui nacque Ashley, alle porte di Dublino. Mi sembrava di scambiare le tue grida per canti in gaelico, di quelli che ci accompagnavano in viaggio. Ho fatto una compilation, te la manderò con questa lettera. Sarà una vecchia cassetta e Ashley si divertirà a giocare con il nastro e forse sarà inascoltabile, ma sai che sono vecchio, non mi piacciono i CD. Si chiama: Pensa se adesso nevicasse. C’è la tua voce, alla traccia numero tre, che canta la vecchia ballata irlandese che abbiamo sentito la prima volta a quel festival di musica tradizionale a Balbriggan. Doveva essere una sorpresa, ma sai che non mi piacciono.
Ha cominciato a nevicare. Ora mi sembra davvero di vederti, fuori dalla vetrina di questo bar, attraverso i fiocchi di neve. Potreste venirmi a trovare, tu e Ashley, quando tua madre non avrà più paura di vederti sparire per mesi; vi porto in giro per la città oppure torno io a Kincora Road e magari mi dici il tuo vero nome.
Come quando mi hai guardato, la notte prima di ripartire per Lahinch e mi hai baciato. Ash non piangeva, sdraiato tra di noi sul letto del primo vero albergo in cui avessimo messo piede durante quel viaggio e tu parlavi di lui, con un sorriso sempre diverso e un amore nuovo. Poi ti eri zittita e mi avevi baciato. Mi avevi chiesto di restare con te.


Io ho scelto di lasciare ancora aperta la gabbia e aspettare che tu tornassi. Perché tornerai, Mughain, e sussurrerai il tuo nome sulle mie labbra e io lo amerò così come quella notte per la prima volta amai il nome di tuo figlio, uguale al mio.
Pensa se adesso nevicasse anche sulla Kincora Road.
Con amore,
Ash.
 

Irene De Marco

  Cultura: "Racconti on the road", premiati i vincitori del primo certame letterario dell'Anas