Cultura: "Racconti on the road", on line "Storia d'asfalto" di Mario Emanuele Fevola
Ogni settimana un racconto del primo certame letterario dell'Anas
STORIA D’ASFALTO
Quando si va via, non bisogna continuare con l’illusione di aver seminato delle assenze. Vai via, e basta.
Il dolore atroce, dietro la maschera, è di chi rimane.
La strada è il mio cantuccio in cui recitare e simulare quella pantomima che i cuori solitari chiamano vita.
Ci sono molte strade, è vero, ma “la strada” è una soltanto.
Quell’articolo determinativo mi arriva a supporto, come una cartina topografica sulla quale sono segnate le tappe dei miei addii.
La strada è una parola longitudinale, non trasversale. Nessun percorso nei meandri nascosti del proprio Io, nessun viaggio di nascita, crescita e morte in questa vita, nessun tempo ciclico che si verifica nuovamente. La strada non ha bisogno di distendersi, di ingigantirsi, di migliorare in altezza.
La strada non è allungarsi. La strada ti allarga e si allarga.
La strada ti allarga quando per troppo tempo ti senti meno di uno e, dopo qualche mese, cammini in due mano nella mano, e occupi un pezzo di pianeta che non avrebbe mai potuto appartenerti se fossi stato solo. Da meno di due ora sei più di uno.
Ti allarga quando mia nonna, con tre operazioni alle ginocchia e le anche completamente ricostruite, col bastone si avvia lenta ogni mattina a comprare il pane e il latte alla bottega di Donna Rosetta. Poi torna a casa e si mette a cucinare. Senza risentire di alcun affanno.
La strada si allarga quando percorro quattro chilometri a piedi, solo per ricevere un tuo bacio, che “tanto abitiamo vicino, facciamo lo stesso tratto”. In realtà abito dalla parte opposta della città, non te lo dico e non te lo dirò mai, ti faccio compagnia e alla fine della strada assieme torno alla fermata del pullman. Senza che le mie labbra abbiano allargato le tue.
Si allarga con Dolores seduta sui sedili posteriori, mentre l’autoradio passa Manu Chao. Dolores che, appena diciottenne, arrotola sigarette e fissa la strada che, dai suoi occhi, si allarga.
La strada ti allarga fino a farti esplodere, come un fiume che esonda o come il caffè che trabocca quando chiudi male la moka e ti macchia a chiazze nere la cucina.
La strada si allarga dalle Ramblas di Barcellona, dall’alcool fluente del Barrio Gotico fino ai ruggiti di spuma del Mediterraneo.
E copre e affoga tutto. I ristoranti col menù a dieci euro, paella e churritos, i ladri che scippano i portafogli, e i pagliacci.
Sono Pablo Jimenez.
Un artista di strada.
Una statua vivente.
Il mio compito è restare immobile, col cerone spiaccicato sulla faccia e i crampi ai polpacci dovuti allo stare troppo seduti. Il mio lavoro è simulare la morte, senza possibilità di abbracciare le persone che mi capitano davanti, senza glorificare un gesto muto della vita.
Immobile. Come una statua di sale che, alla prima tempesta, va giù.
La Rambla, come l’ombelico del mondo. Di giorno dipinta di giallo e di notte schizzata a rosso.
Ricettacolo di anime che corrono verso un lavoro, verso un amore, verso la salvezza divina o distrattamente alla pausa pranzo. La Rambla è sentirsi minimo e soffrire la mancanza, una mancanza che non riesce a placare l’unione di questa moltitudine di solitudini.
Si desidera la permanenza in questo fiume di persone, ritrovare e trovare le gocce che fanno traboccare il vaso della solitudine, essere innamorati di perenne innamoramento.
Mi fu detto: prima di ritrovarti, devo ritrovarmi. Strano che Dolores potesse avere pensieri così lucidi. Era bella, certo, ma non brillava di intelligenza.
E, allora, La Rambla è il palcoscenico necessario per una statua come me. Riscoprirmi, togliermi di dosso la polvere di cattiveria gratuita che viene rinnovata quotidianamente, cicatrizzare i segni di saluti e caffè presi con Dolores, difficili da digerire. Isolare il significato di parole come: “addio”, “bentornato”, “non lasciarmi più”, “vai via da me”, parole così diverse ma in certe circostanze quanto mai simili.
Riscoprire.
Riscoprire l’ordinaria magia di gesti quotidiani quando intorno il paesaggio corre e scorre. Sfuggire alla metropolitana. Farsi strada fra la gente, rispettare la fila, mangiare giapponese, osservare il bacio di un nepalese e una senegalese. Leggere Garcia Lorca la sera tardi, coi litri di sangria che scorrono come sangue, mentre fuori piove e non lo sai e si sentono le sirene della polizia.
Da dietro al cerone si assiste allo spettacolo scalmanato del mondo che vive.
Da sopra i capelli, sotto al cappello, con i lampioni lontani che attorniano la statua di Cristoforo Colombo, osservo le dita di Lui che tiene Lei stretta al muro.
Le tocca il seno gonfio, Lei bacia il collo di Lui e spingono, ginocchio e ginocchio, quel tanto che basta per farle alzare il vestitino. Corto. Troppo.
Lo spettacolo è offerta tra una discoteca only smoking e un KFC.
L’amore duro tra luci psichedeliche e pollo fritto con patatine.
C’è un musicista che, alle due del mattino, suona e suona e suona ancora. Da ora. Intona “Hallelujah” di Leonard Cohen, a rimarcare i miei ricordi che stentano a volare via, a tener stretto il freddo intorno alle mie braccia impietrite, suona senz’altro per dare risalto all’assenza di Dolores e di me che da dietro non la tengo più per i fianchi. Quel tanto che basta per sussurrarle, tra collo e spalla, “Besar mi querida, hasta la maňana, mi amor no puede esperar”.
Il mio amore non può aspettare. Il mio amore non può sperare. Perché La Rambla sa bene che il futuro è domani mattina alle 9, non fra cent’anni. Quel futuro incastonato in altre milioni di maňanas.
E allora fermo fino al mattino, fino a che il buio non lascia posizione a questa nuova luce, e ci saranno ancora turisti e anime sparse davanti ai miei occhi.
Buenas noches mis amigos. Il sipario, stanotte, cala anche qui. Ma Barcelona recita sempre e comunque, non le resta soltanto che cambiarsi d’abito.
Un anno fa hai cambiato strada, lontano dalla mia.
Quelle come te, le persone che cambiano strada, sono animate da un incessante desiderio di cammino, per colmare vuoti feroci che portano sull’orlo dello stomaco.
Passeggiano nel primo sole di giugno sfoggiando le stesse scarpe indossate in inverno. Vagabondano nella pioggia battente di novembre, fermandosi con l’ombrello sotto un lampione, a fumare una sigaretta e ad aspettare qualcuno che sicuramente farà ritardo. Dolores ti immagino a girovagare per Barceloneta a piedi nudi, fra l’andirivieni del bagnasciuga e la sabbia che si insinua violenta fra le tue dita. Fissi il mare con una voglia lacerante di tuffarti e affogarci dentro, ma non lo farai mai. Sei bella, bellissima, ma non coraggiosa.
Le persone che cambiano strada non le incontrerai mai più sul tuo cammino, però farei tornare senz’altro te, che sapevi che mi avresti perso e, la notte prima che diventassi un pagliaccio, mi regalasti un disco di canzoni d’amore suonate da mariachi, che dovevano servire a non andare. Fui io che cambiai strada.
E poi tu, che cambiasti strada per un solo giorno che vale una vita intera, e fuori il portone di casa mia mi percuotevi il petto con le tue mani fatte di pane, per farmi restare e incatenarmi al tuo piccolo cuore da uccellino. Tu che, dopo i pugni, crollasti in un abbraccio pieno di amore e rabbia e disperazione.
In quel momento, col cuore percosso e martoriato, decisi di non crollare.
Così diventai statua.
La bellezza eclatante della vita è data dalla sua imprevedibilità. Il sole dopo un temporale arriva guardingo, nascosto da nuvole di vergogna. Ma le tempeste sono improvvise, e ti colpiscono sempre quando per la strada cammini senza ombrello.
Dolores mi passi avanti improvvisa come il miracolo, come il miraggio, come la tempesta.
Mi passi davanti elegante, immensa, sfinita e infinita.
Ma resto immobile, devo restare immobile. Sono un artista di strada e ormai non puoi riconoscermi, col mio viso uguale a quello di altri mille pierrot. Resto immobile, che il minimo errore delle guance, la più piccola inclinazione delle labbra, un minuscolo incresparsi delle palpebre, mi farebbe riconoscere da te.
Non mi sono ancora ritrovato. Sei stata tu a trovarmi.
Ma resto fermo, per non diventare umano.
Mi passi davanti ignara e con te passano tutte le fotografie del nostro amore disperato e sguaiato.
Eppure eravamo tragicamente belli assieme.
Dolores è stata tempesta, e ora è quiete. Ma sai benissimo che si sente ancora tempesta annunciare.
E ora sei lontana mi querida, ma la tua voce mi appartiene. È dalle tue labbra che le parole prendono vita in me e in me non possono fare altro che morire. Marchiata sui filtri di sigaretta c’è l’orma delle tue dita che tante volte hanno scavato la mia schiena, quando nascosti nell’ombra inventavamo anche noi promesse e bugie.
Sei lontana Dolores, e la quiete non fa altro che renderci statue viventi, fatte di sale, immobili ed eterne come nulla lo è nella vita.
Ma io sono qui, di fronte a te. E non mi vedrai mai e non puoi vedermi.
Taccio
Non mi muovo.
È così che sono, immobile.
Come morto.
Pronto per farmi trasportare da La Rambla alla riscoperta di me, lontano da questa mia storia d’asfalto.
Cultura: "Racconti on the road", premiati i vincitori del primo certame letterario dell'Anas