Flash news Infrastrutture:
 
 

Briciole di pane

Cultura: "Racconti on the road", on line "Torpedone Tango" di Mauro Gandini

Ogni settimana un racconto del primo certame letterario dell'Anas

TORPEDONE TANGO
 

 

Ieri


 Scusi, è questo L’Angolo di Pasin?
L’anziano signore, cui la domanda era rivolta, sembrava addormentato sulla sedia all’entrata del locale, come il famoso pescatore di una canzone: qualcuno avrebbe potuto pensare a una scena ambientata in Messico, se non fosse stato per la Mole Antonelliana che spiccava sul fondo di via Ormea.
 Se l’insegna che ha fatto mettere mio padre sessanta anni fa qui sopra le nostre teste non è errata… beh! Sì, allora, questo è L’Angolo di Pasin!
 Ha ragione ho fatto una domanda stupida, capita!  allungando la mano.  Marco Biolchini, piacere.
Il vecchio guardò la mano allungata verso di lui e, dopo un attimo, decise che, tutto sommato, non c’era nulla di male a stringere la mano di quello sconosciuto che chiedeva dell’Angolo di Pasin; ma sul fatto di dire che lui era Pietro Pasetti, figlio di Carlo Pasetti detto il “Pasin”, ce ne passava, quindi restò in silenzio e in disinteressata attesa di possibili spiegazioni.
 Sono di passaggio a Torino e, visto che mio padre mi parlava dell’Angolo di Pasin, ho pensato di venire a vedere se esisteva ancora.
Il vecchio iniziò a pensare che di gente strana al mondo ce n’è tanta, ma il tarlo della curiosità ormai era dentro di lui: perché questo ragazzo veniva a controllare se L’Angolo di Pasin esisteva ancora?
 Ha fatto il militare a Torino, suo padre?  buttò lì senza troppa convinzione.
 Ah! No, no!  il giovane sorrise al vecchio.  Mio padre mi raccontava la storia del “Torpedone Tango”.
 “Torpedone Tango”…  sentendo quelle parole il vecchio Pietro inclinò leggermente la testa di lato e socchiuse gli occhi, guardò appena il giovane che aveva davanti e la mente tornava agli anni ’50.

 


Molto più in là di ieri


“E se ci andassimo anche noi? Tanto ci prendiamo qualche giorno di ferie ai primi di Agosto!”, Giovanni sembrava proprio convinto di quello che stava proponendo.
Pietro si girò verso il tavolino: “Giuan, tu prima ti fai il giro di tutti i bar di San Salvario e poi vieni qua a dire di stupidad”.
“Ma no, dai! Pensiamoci! Non è così difficile arrivare in Emilia!”.
“Fosse in una grande città, col treno ci potremmo arrivare, ma andare a ballare sull’Appennino… che razza d’idea!”.
“In effetti… ci vorrebbe almeno un torpedone!”, disse Giuan pensandoci sopra.
Carlo ascoltava la conversazione dal retro della salumeria: aveva aperto L’Angolo di Pasin all’inizio degli anni ’30, una salumeria, quello gli aveva insegnato monsù Baret di via Garibaldi, per cui aveva lavorato da quando aveva sedici anni. Adesso la mandava avanti con il figlio Pietro, e siccome le cose non andavano male e non c’era tempo di andare con gli amici al bar, avevano pensato di mettere un tavolino in un angolo così erano gli amici che venivano da loro. Portavano una bottiglia di vino, salame e formaggio ce li metteva “el Pasin”, come lo chiamavano a San Salvario.
“Forse avrei la soluzione!”, disse Carlo affacciandosi dal retro.
“Che soluzione?”, disse Pietro incredulo che suo padre potesse dare corda a quell’ubriacone del Giuan.
“Il torpedone…”.
“Che torpedone?”.
“Il torpedone che serve per andare al concorso di tango a Montese”, chiarì Carlo.
Negli anni ’20 aveva imparato a ballare: le servette che venivano a comprare da monsù Baret erano le sue prede migliori, aveva imparato tango e valzer proprio per poterle portare a ballare la domenica pomeriggio.
“Te lo ricordi il Nivula, quello che a cui piaceva correre in auto, che l’hanno chiamato così perché nel suo garage ci sono tutte le foto di Nuvolari?”.
“Cosa c’entra il Nivula adesso?”, Pietro lo conosceva e aveva sempre pensato che non avesse tutti i lunedì al loro posto.
“C’entra, c’entra! Ha comprato un torpedone dell’esercito e l’ha tutto dipinto di rosso come una Ferrari. Lo usa per portare le pie donne ai santuari sparsi qui intorno”.
“E tu ti metteresti nelle mani del Nivula?”.
“Per il tango, questo e altro! Lo chiameremo: ‘Torpedone Tango’!”.

 


Ieri


 E cosa le raccontava suo padre del “Torpedone Tango”?  Pietro riaprì gli occhi.
 Tutto, o quasi, almeno quello che sapeva: ai tempi di “Torpedone Tango” lui era un ragazzino.
 Ecco… non tutto, perché lui sul “Torpedone Tango” non c’è mai salito!
Marco ci rimase male, il vecchio non aveva tutti i torti: il “Torpedone Tango”, come gli raccontava suo padre, era arrivato al loro paese sull’Appennino tosco romagnolo per un concorso di ballo all’inizio degli anni ’50. Lui era ancora un bambino, ma si ricordava tutto e aveva narrato a Marco la storia di quella banda di matti che, arrivati un giorno di Agosto agli ottocento metri di Montese, erano scesi quasi ballando dopo due giorni di viaggio.
 Anzi no  ricordò il vecchio  se tuo padre fa Anselmo di nome, forse ci salì una volta sul “Torpedone Tango”! Ho sempre pensato che fosse stato lui a…
Marco inclinò leggermente la testa di lato e socchiuse gli occhi come per mettere a fuoco e capire cosa aveva appena detto il vecchio: suo padre si chiamava proprio Anselmo.
 Ragazzo, se non hai fretta, siediti che ti racconto un po’ di cose su “Torpedone Tango”: sai… io c’ero!

 


Pietro racconta: pronti? Via!


Quella mattina una sottile nebbiolina saliva dal Po e attraversava il Valentino: era un afoso 6 di Agosto e avevamo deciso di trovarci tutti lì per partire con il “Torpedone Tango”, in Corso Massimo all’angolo con Via Galliani, cinquanta metri da dove l’idea di quell’avventura era nata, L’Angolo di Pasin.
Dalle 5 del mattino eravamo arrivati alla spicciolata, prima noi: mio papà Carlo con mia mamma Anna e io naturalmente; poi piano piano tutti gli altri, anche Gaspare, Antonietta e Giacomo con la loro valigia in una mano e la custodia nera degli strumenti nell’altra, fisarmonica, violino e chitarra.
Gaspare suonava la fisarmonica e non poteva girare da solo: una bomba durante la guerra lo aveva reso cieco. Lo accompagnava sempre una ragazzetta secca, orfana: aveva perso i genitori nel bombardamento della loro casa in via Cappel Verde, era il ’43, le suore l’avevano adottata e lei le aiutava all’ospedale. Lì incontrò Gaspare, che era ricoverato: quando fu dimesso chiese che Pinuccia lo accompagnasse e lo aiutasse, era in un certo senso anche lui orfano, i suoi erano morti prima della guerra e non aveva parenti a Torino, ma possedeva diverse case di pregio che gli rendevano buoni affitti da parte di valenti professionisti.
Quasi nessuno sapeva che si chiamasse Antonietta: le sue compagne del conservatorio la chiamavano “Ciprì”, perché era alta, magra e slanciata come un cipresso. Quando suonava il violino in piedi, la musica sembrava venisse dal cielo, come una pioggia sottile e penetrante di note.


Giacomo faceva il garzone nella nostra salumeria, suo padre suonava la tromba nell’orchestra della RAI di Torino: non aveva mai avuto molta voglia di studiare, così dopo le elementari e i tre anni di avviamento, era andato a lavorare. Nascendo nella casa di un musicista non poteva non amare la musica: la chitarra era la sua prima passione, Ciprì la seconda, ma ancora non era ben sicuro di quale fosse la prima e quale la seconda.
Fammi ricordare… con noi quella mattina sul marciapiede di Corso Massimo c’era la famiglia Rebaudengo al completo, con il piccolo Tonino che non sapevano a chi lasciare; Giuan che, nonostante l’ora, era già riuscito a trovare un bar aperto dove farsi un paio di calici di Barbera; i gemelli Ferraris, Rachele e Benito, figli di un piccolo gerarca fascista, scappati da Asti con tutta la famiglia dopo la guerra per evitare rappresaglie da parte dei partigiani; gli sposini Angela e Carmelo, immigrati con le famiglie dalla Calabria un paio d’anni prima, il viaggio a Montese era la loro luna di miele; Annina e Vanda, le amiche per la pelle, entrambe innamorate di un unico uomo… il sottoscritto.


Chi mancava? Nessuno dei passeggeri… alle 6 del 6 Agosto mancava l’essenziale su Corso Massimo: “Torpedone Tango” e il suo proprietario, nonché autista, il Nivula.
Le donne avevano già formato gruppo e chiacchieravano tra di loro, impensierendoci non poco: se continuavano così per tutto il viaggio, non avrebbero avuto fiato per ballare. Loro certamente non si erano ancora preoccupate del ritardo del Nivula, quando passò una nuovissima Alfa Romeo 1900 TI nera della Polizia, la prima “pantera” come avevano iniziato a chiamarle allora. I poliziotti vedendo un gruppo di persone ferme sul marciapiede alle 6 del mattino, non chiedevano di meglio per fermarsi.
“Stiamo aspettando il Torpedone, dobbiamo andare dalle parti di Modena”, dissi ai poliziotti.
“Per caso è un torpedone rosso?”, chiese uno dei pulotti.
“L’avete visto?”.
“Accidenti a lui!”, disse quello che sembrava essere l’appuntato risalendo in auto con la chiara idea di andarsene lasciandoci al nostro destino: “È qui dietro l’angolo in Corso Vittorio, ci ha chiesto una mano per aiutarlo a cambiare una gomma: abbiamo fatto una faticaccia e una sudata con tutta quest’umidità”.

 


Partenza… e anche prima


“E adesso che pensi di fare? Andiamo in giro senza la gomma di scorta?”, chiese mio padre a Nivula appena partiti.
“Stai tranquillo! Mio cognato mi ha detto che a Feliziano, tra Asti e Alessandria, c’è un ottimo gommista: in meno di un’ora sistema tutto”, rispose il Nivula senza battere ciglio.

A quell’epoca non c’erano le autostrade che ci sono adesso, si doveva pianificare bene il viaggio: Nivula aveva comprato cinque o sei cartine del Touring Club e una sera, chiusi qui all’Angolo di Pasin, ci siamo messi a studiare la strada. La più corta era quella che passava da Cheri, scendeva ad Asti e proseguiva verso Alessandria: quando i gemelli Ferraris sentirono che saremmo dovuti andare ad Asti, dissero che non se la sentivano di passare di lì. Feci una bella fatica per convincerli che a quasi dieci anni di distanza sarebbero sopravvissuti passando da Asti per pochi minuti.
Da Alessandria dovevamo puntare verso Piacenza: adesso le statali sono belle larghe, girano attorno alle città con le “tangenziali”, allora no, si passava dal centro. Per arrivare fino a Piacenza erano quasi 180 km: volevamo arrivare fin lì il primo giorno, poi da Piacenza avremmo preso la Strada Emilia fino a Modena e poi su verso l’Appenino in direzione Montese.
Questo era il piano, ma chi poteva sapere a cosa saremmo andati incontro? Solo la nostra passione per il ballo ci aveva spinti a concepire quella follia!

 


Ieri


 Mio papà mi diceva che eravate tutti matti…  Marco pensò di far riprendere fiato al vecchio.
Un sospiro:  Forse lo eravamo, ma avevamo passato la guerra, e poi anche il primo dopoguerra  riprese Pietro.  Adesso siete annoiati dal troppo divertimento, allora quei pochi momenti di piacere dovevano essere pieni e goduti fino in fondo. Gli ostacoli per chi ha vissuto la guerra sono sempre superabili, l’importante è avere la passione. Noi la passione per il ballo l’avevamo, infinita!
 Ma il torpedone che avevate deciso di usare com’era in definitiva?
 Ah! Ragazzo! Era veramente cosa d’altri tempi… Nivula diceva di averlo comprato dall’esercito e lui l’aveva ridipinto di rosso, ma nessuno ci credeva. Era ancora di quelli con il muso davanti per il motore e la guida a destra, sì perché tanti anni fa in Italia si circolava a sinistra e la guida era a destra. E poi era panoramico: aveva vetri anche in alto, dove la carrozzeria s’incurva per creare il tetto; e poi il tetto era un pesante telone che si poteva far scorrere all’indietro come le costose automobili di adesso.
 No, non ci posso credere che esistessero dei torpedoni decapottabili  disse Marco con gli occhi spalancati dalla sorpresa.  E per giunta rosso… non dava proprio nell’occhio!  finì sorridendo.
 Devi sapere che il Nivula, pace all’anima sua, aveva fatto per tanti anni il contrabbandiere durante la guerra e anche dopo, su e giù lungo i sentieri dietro il lago Maggiore, verso la Svizzera. Un bel dì ci viene a raccontare che ha comprato un torpedone dell’esercito e l’ha ridipinto di rosso in onore di Nuvolari: fino a qui niente da dire, ma poi un giorno arriva il Giuan con un ritaglio di giornale, dove si raccontava di un autobus rubato, rosso, che faceva la spola tra Tirano e San Moritz. Insomma, girava voce che il Nivula avesse contrabbandato anche un torpedone!

 


Il primo giorno


Scendendo verso Chieri, dopo aver superato Superga, iniziammo a essere più tranquilli: avevamo impiegato più di un’ora ma “Torpedone Tango”, sbuffando e dandoci segnali chiari di sforzo, aveva superato le colline. D’altro canto se era vero che veniva dai tornanti del passo del Bernina, come non potevamo avere fiducia in lui?
La giornata era calda, ma un po’ di nuvole e il tetto aperto consentivano di avere nel “Torpedone Tango” una temperatura ideale.
Tonino Rebaudengo aveva già il suo idolo nel Nivula: si era seduto davanti e guardava con attenzione tutti i movimenti che faceva per cambiare, con quello strano cambio a due leve, di cui nessuno capiva il funzionamento.
“Ma sì papà, dai, è semplice! Il cambio è doppio, perché così hai la possibilità di avere più marce di un cambio solo: usi le marce normali e poi, però, usi il riduttore per avere più potenza sulle ruote quando serve”, spiegava Tonino a suo padre, che faceva l’impiegato alla FIAT. “Nivula è bravissimo: ogni volta con la leva in folle molla la frizione e riporta il motore al giusto numero di giri, per quello non gratta mai!”.


Intanto eravamo arrivati a Feliziano: la casa e l’officina del meccanico dove dovevamo cambiare la camera d’aria alla gomma di scorta erano poco prima del paese, in mezzo alla campagna con un grande piazzale.
Non so a chi venne l’idea, forse furono i musicisti, che per abitudine si portano sempre appresso gli strumenti, si trovarono giù da Torpedone con tutto ciò che serviva loro per suonare. Pochi istanti e le note della Cumparsita risuonarono nel cortile: i piedi fremevano e ci mettemmo tutti a ballare.
Il richiamo della musica fu immediato: la moglie del meccanico si affacciò alla finestra della casa e dopo poco scese con sua sorella e via anche loro di tango. Anche due coppie di contadini, che si stavano riposando sotto un albero lì vicino, dopo pochi istanti furono dei nostri. Nonostante la levataccia, le energie non ci mancavano mai quando si trattava di ballare.
A mezzogiorno “Torpedone Tango” era a posto. Anche il meccanico si fece un paio di tanghi con la moglie, mentre il bostik della toppa che doveva applicare sulla camera d’aria bucata si asciugava. Io mi presi cura della cognata, bella e in carne.
Visto che era giunto mezzodì, la moglie del meccanico buttò lì un: “Spaghettata?”.

 


Ieri


 Inizio a capire perché mio padre mi raccontava questa storia! È vita d’altri tempi, cose che non torneranno più…  Pietro era incantato dal racconto così dettagliato del vecchio.
 Per noi vecchi ricordare è essenziale: continuiamo a vivere grazie ai ricordi, grazie al pensiero delle energie che avevamo e che ora non abbiamo più. Pensa che io ballo ancora il tango, certo non più come una volta, ma anche quello mi fa sentire vivo, anche adesso che parlo con te del “Torpedone Tango” mi sento più vivo di mezz’ora fa… Dove eravamo rimasti?

 


Galeotto fu Torpedone Tango


Ballato, mangiato e bevuto: cosa volevamo di più? Alle 2 del pomeriggio ci siamo rimessi in strada con Nivula, che si era bevuto tre tazze di caffè per esser sicuro di stare sveglio.
Noi passeggeri, che non avevamo quel pensiero, ci mettemmo comodi: noi uomini ci togliemmo le camicie restando in canottiera; le donne slacciarono le calze dai reggicalze e buttarono i sandali da parte, poi tutti a cercare di schiacciare un pisolino ristoratore. Il piccolo Tonino era già un po’ che dormiva, mentre noi ballavamo, si era offerto come aiutante del meccanico che gli aveva fatto conoscere un po’ di trucchi del mestiere.
Quando salii sul Torpedone, Annina era lì che mi aspettava: sapevo di piacere anche a Vanna, ma Annina era la mia preferita. Aveva le labbra carnose, che avevo già provato qualche volta in un angolo nascosto della sala da ballo dove c’eravamo conosciuti, e poi il seno da maggiorata, come si diceva una volta, era lì morbido che diceva: “Appoggia la tua testa e fai bei sogni”.


Vanna non era una brutta ragazza, ma non aveva la bellezza sana e dirompente di Annina: fino a Feliziano avevano viaggiato insieme raccontandosi i segreti della settimana, ma adesso, salendo, aveva visto che Annina e io eravamo insieme e, così, si sedette in fondo al Torpedone con il Giuan. Qualcosa mi diceva che ci sarebbe stata una sorpresa.
“Torpedone Tango” andava tranquillo in quel pezzo di strada nella pianura: Alessandria era passata e già si vedevano le colline dell’Oltrepò alla nostra destra.
L’urlo colse tutti impreparati, anche Nivula sobbalzò facendo sbandare leggermente “Torpedone Tango”…
“Omadonnasignur!”, questa l’esclamazione che arrivò dal fondo dove sedeva Vanna con il Giuan: ci voltammo tutti e vedemmo il viso di Vanna più rosso della pasta al pomodoro che avevamo mangiato dal meccanico.
Ebbene sì, Vanna aveva scoperto quello che noi ragazzi avevamo già scoperto andando a fare il bagno nudi nel Po con il Giuan: le abbondanti misure che lo affliggevano fin dalla più giovane età. E fu da quel momento che Vanna mi tolse gli occhi di dosso!

 


Ieri


Marco rimase un attimo perplesso dopo aver ascoltato questo racconto, solo un attimo, e poi scoppiò in una fragorosa risata.
 Ah, ma allora ci pensavate anche voi a quelle cose!
 Più di adesso, mio caro, più di adesso! A Torino c’erano i casini più famosi!
 Forse lo avevo letto da qualche parte… ma poi per passare la notte come vi eravate organizzati?
 Come si faceva a quell’epoca, con le locande che si trovavano per strada!

 


Arriva la notte


Avevamo pensato di fermarci a Piacenza, ma non avevamo voglia di entrare in città a cercare una sistemazione per la notte. Mio cugino Nando mi aveva detto che, quando faceva il partigiano, era stato in una villa che forse era anche una locanda, da quelle parti. O forse era un convento, magari non era nemmeno quello: l’unica cosa che gli sembrava di ricordare era che si trovava in un posto che si chiamava Quinto o Sesto.
Alla fine lo trovammo, nonostante mio cugino: il paese era Quarto ed era a circa 10 km dall’Emilia. Ovviamente non era né una villa, né un convento, ma una casa di contadini che videro arrivare “Torpedone Tango” con la dovuta sorpresa.
Non so cosa avesse combinato lì mio cugino Nando alla fine della guerra, ma quando dissi che avevamo avuto la dritta da lui, Serafina, la padrona di casa, ci fece un gran sorriso e ci disse che a tutto c’è rimedio fuorché alla morte, ci si sarebbe arrangiati.


In men che non si dica lei e le altre donne apparecchiarono la tavola aiutate dalle nostre donne, mentre noi uomini parlavamo con i contadini, interessati a sapere com’eravamo arrivati fin lì con il rosso Torpedone: ci raccontavano che anche dalle loro parti ce n’era uno simile ma giallo, lo utilizzavano qualche volta per andare alle feste a Piacenza, che era tutta strada pianeggiante, solo qualche volta andavano su a Bobbio per la festa dell’Abbazia di San Colombano a novembre.
Mentre chiacchieravamo, le donne ci portarono un vinello fresco e vivace, un Ortrugo che producevano dei loro parenti un po’ più su, sulle colline: e poi piatti di coppa, pancetta, grana e altri formaggi. Le donne di casa avevano appena finito di preparare la burtleina che doveva servire da “merenda” per chi andava nei campi il giorno dopo, ma ne avrebbero fatta altra più tardi, così anche quella finì sulla nostra tavola: era una via di mezzo tra una frittata e una focaccia, il suo matrimonio con gli affettati fu di gran successo!


Dopo il secondo calice di Ortrugo i nostri musicisti decisero che mangiare senza musica non era così bello e quindi via di tango: la serata passò così, tra bocconi, un tango, un calice di Ortrugo, un valzer…
Verso le dieci eravamo notevolmente rovinati dal cibo, dal ballo, ma soprattutto dalle zanzare! Nando mi raccontava che loro avevano sempre dormito in uno stanzone che era utilizzato come deposito di fieno e altre cose per l’inverno: anche per noi non c’era altro posto che lì!
Sul pavimento i contadini avevano steso il fieno e le donne avevano coperto il tutto con lenzuola di tela grezza: certo non fu come dormire in comodi letti, ma eravamo così stanchi che non fu difficile addormentarci.

 


Ieri


 Ci credo! Eravate in piedi dalle 5 e forse anche prima… ma Nivula non si stancava a guidare?
 No, almeno apparentemente! Nivula poi non ballava, l’unica musica cui era sensibile era quella del motore del suo Torpedone.
Pietro sembrava rinato mentre raccontava a Marco la storia di “Torpedone Tango”: non era più il vecchio assonnato che Pietro aveva trovato seduto su una vecchia sedia a dormicchiare davanti alla porta de L’Angolo di Pasin.
 Pensa, Nivula aveva voluto dormire sul Torpedone! Cosa che avrebbe dovuto fare anche a Montese, ma questa è un’altra storia.
 E voi come avete dormito?
 Ci siamo addormentati di botto, ma non si è dormito bene; forse Tonino sì, ma, si sa, i bambini dove li metti dormono. Io mi misi in un angolo con Annina, ma a pochi metri c’erano i miei e più di qualche bacio non ci siamo scambiati. Dall’altra parte dello stanzone, ingombro con ogni ben di dio, granaglie, fieno, frutta, e chi più ne ha più ne metta, si erano imboscati il Giuan con Vanda, chissà per fare cosa; forse qualcosa riuscirono pure a fare, visto che erano separati dal gruppo, ma a parte qualche rumoretto all’inizio, poi non sentii niente visto che crollai dal sonno. A parte i gemelli, che dormivano tenendosi per mano, gli altri si erano tutti sparpagliati come il fieno su cui dormivamo.

 


Verso la meta


Caffelatte per tutti e gli avanzi di burtleina: quella fu la nostra colazione prima di risalire sul Torpedone. Serafina arrivò tenendo per mano Albertino, il suo primogenito di 9-10 anni, mi baciò sulla guancia e mi disse sottovoce sorridendo: “Questo lo porti a Nando!”. C’era qualcosa che dalla sera precedente mi lasciava perplesso, poi di botto ebbi l’illuminazione: Albertino aveva la stessa faccia quadrata di mio cugino Nando!
La strada ci chiamava: alle 7 passavamo da Piacenza e imboccavamo l’Emilia. Allora di traffico ce n’era poco, più che altro autocarri, sembravano formiche, vivevano sull’Emilia, su e giù instancabili.


Dopo un paio d’ore eravamo quasi a Parma ed è stato all’altezza di Sanguinaro che successe il patatrac. Angela, la moglie di Carmelo combinò il guaio: Gianna Rebaudengo aveva un magnifico cappello di paglia, ma se l’era tolto per prendere il sole, visto che viaggiavamo con tetto aperto. Angela le chiese se lo poteva mettere un po’, perché le erano venute le sue cose e aveva un feroce mal di testa.
Dopo esserci fermati a un distributore “Supercortemaggiore” a fare il pieno, ci rimettemmo in carreggiata, ma proprio in quel momento, zac! Un colpo di vento disarcionò il cappello della Rebaudengo, momentaneamente sulla testa di Angela.


Apriti cielo! Gianna iniziò a urlare male parole verso Angela che si era rannicchiata tra le braccia di Carmelo. Visto il macello, Nivula si fermò al primo spiazzo che trovò: ormai era troppo tardi, chissà che fine aveva fatto il cappello. Angela ne approfittò, scese con lo stomaco sotto sopra e con l’eco delle parolacce di Gianna nelle orecchie: la sua colazione finì ai piedi di un albero.
Mentre eravamo lì fermi, arrivò un camion che si fermò di fianco al “Torpedone Tango”: il camionista scese e chiese al Nivula se quel cappello ormai informe che una folata di vento aveva fatto entrare nel suo camion fosse loro. Gianna si alzò di scatto, scese e andò a riprendersi il cappello che ormai aveva più la forma di canestro che di un copricapo, risalì sul Torpedone buttandolo in un angolo e non disse più nulla per tutto il viaggio, incenerendo tutti quelli che incrociavano il suo sguardo.


La pace degli spiriti e quella dello stomaco di Angela sembravano tornate, “Torpedone Tango” ripartì: Parma, Sant’Ilario, Reggio Emilia, Rubiera, Modena era a un passo e mezzodì pure, urgeva trovare un posto dove mangiare.
Visto il via vai di autocarri sull’Emilia, qualcuno propose di fermarsi in qualche trattoria con tanti camion fuori: ma era un po’ presto e di camion fermi non ce n’erano ancora molti, così decidemmo di fermarci in un posto con un vasto parcheggio… grande spazio, tanti camion.
Fermata, giro al gabinetto; primo secondo con pane, acqua e vino; tutto in meno di tre quarti d’ora. Lì si andava a cottimo, i camionisti avevano fretta. Di tirare fuori gli strumenti non se ne parlava nemmeno!


Mentre mangiavamo, la trattoria si era riempita e sembrava ormai un girone infernale di dantesca memoria. Pagammo il conto e uscimmo. Quando eravamo arrivati, il parcheggio era quasi vuoto e quindi avevamo lasciato il nostro amato Torpedone vicino all’entrata della Trattoria, ma adesso… sorpresa! “Torpedone Tango” sembrava essersi rimpicciolito tutto circondato dai più svariati camion: come avremmo fatto a uscire? Dovevamo aspettare pazientemente, ci volle una mezz’oretta per rimettere le ruote sull’Emilia. Nel frattempo i nostri musicisti avevano tolto gli strumenti dalle custodie e ci aiutavano come il solito a passare il tempo.

 

 

Ieri

 Beh! Arrivati a Modena, eravate ad un passo da noi  disse Marco.
 Partendo da Torino, oggi potresti dire di essere quasi arrivato, ma allora iniziava la parte più difficile: sai bene che la strada che costeggia il Panaro non è nemmeno così brutta, ma la salita per arrivare a Montese era tutt’altro che semplice per “Torpedone Tango”.
Tonino era quello più contento, si aspettava un grande spettacolo da parte di Nivula, che avrebbe dovuto dar fondo alle sue arti di guidatore.

 


L’arrivo


Arrivammo ai piedi della salita per Montese alle 5 del pomeriggio. Eravamo ancora tutti vivi: mio papà dormiva russando e mamma cercava di farlo smettere con mirate gomitate; i gemelli giocavano a carte tra loro in un mondo a parte; Annina e Vanda si raccontavano chissà che, forse cose indicibili su Giuan; i coniugi Rebaudengo ascoltavano le disquisizioni tecniche di Tonino sulle difficoltà della salita; i coniugi del sud facevano “cose” cercando di nascondersi in fondo al Torpedone sotto l’unico pezzo di cappotta, che lasciava il tetto in parte coperto: lì sotto non avevano il problema che li vedessero dalle finestre dei primi piani, quando si passava dai paesi.


I musicisti pulivano i loro strumenti salvo Giacomo che suonava piano qualche nota con la chitarra.
Il ponte sul Panaro era ancora in legno e scricchiolò simpaticamente al passaggio di “Torpedone Tango”: Nivula si fermò subito dopo il ponte e scese con un secchio fino alla riva per riempirlo di acqua fresca, mentre noi ci domandavamo il perché. La risposta ce la diede appena tornato: “Con la salita che stiamo per affrontare su questa strada che in alcuni pezzi sarà pure piena di buche, preferisco far riposare un po’ il motore e poi riempire bene il radiatore di acqua fresca”.
Erano quasi le sei quando ripartimmo: i primi tre chilometri furono semplici, poi iniziò la salita. In un paio di tratti “Torpedone Tango” faceva veramente fatica e Nivula chiese alle donne di scendere e agli uomini di aiutare spingendo: anche lui scese e il volante lo prese Rachele, la gemella Ferraris, che alla fine della guerra aveva imparato a guidare l’ambulanza facendo la volontaria in ospedale.

 


Ieri


 Bene, eravate finalmente arrivati, l’avventura era andata a lieto fine! . Marco finalmente si rilassava dopo aver ascoltato con attenzione il racconto di Pietro.
 Avventura finita? Nemmeno per sogno!  rispose Pietro con voce tonante.
 Mah! Come…  Marco era disorientato.
 Eravamo arrivati, ma non sapevamo che a Montese ci fosse una banda di ragazzini monelli, capitanati da tuo papà!
 Oddio! Che c’entra ora mio padre?  Marco era esterrefatto.
 C’entra, c’entra!

 


Il giorno dopo

Quando arrivammo, erano già le 8.30 di sera. Ci sistemammo in una locanda e io accompagnai Nivula a parcheggiare “Torpedone Tango” fuori dal paese, dove iniziava la strada che scendeva verso la Toscana.
Come la sera precedente, Nivula sarebbe voluto restare a dormire sul Torpedone: non fu per me semplice convincerlo che aveva una camera già pagata alla locanda e che un letto era quello che ci voleva dopo tutta quella strada. Alla fine ci riuscii e lasciammo “Torpedone Tango” parcheggiato al lato della strada, con la valle che si apriva davanti a lui.
La sorpresa fu la mattina dopo: Nivula uscì e tornò disperato alla locanda, “Torpedone Tango” era sparito!

 


Ieri


 Come sparito?  disse Marco con un sussulto.
 Non c’era più, volato in cielo, anzi no, volato giù nella strada in discesa, una macchia rossa sparpagliata tra gli alberi trenta o quaranta metri più in giù!
 Ma no!  Marco era incredulo.  Perché prima diceva che forse mio padre ne sa qualcosa? Lui quando mi racconta di “Torpedone Tango” si ferma a quando siete arrivati su a Montese.
 E ci credo che non dica altro: tuo padre era un masnà tremendo e aveva un gruppetto che lo seguiva. Nella notte luminosa di luna piena, sembra avessero deciso di divertirsi un po’ con “Torpedone Tango”: salirono, saltarono sui sedili e a turno si misero alla guida, e quando furono stanchi, scesero. Tuo papà pare fosse l’ultimo, ma prima di scendere cercò di capire a cosa servisse quella lunga leva che aveva dovuto scavalcare per mettersi al volante. Era il freno a mano e lo abbassò: “Torpedone Tango” si avviò lentamente e lui preso dalla paura saltò giù al volo prima che prendesse velocità. Nessuno sentì il botto perché era dalla parte opposta del paese.

 


Oggi


Ufficio del notaio Bariotti – Zocca (Mo)
 Siamo qui oggi per leggere le ultime volontà di Anselmo Biolchini, nato a Montese il 2 Gennaio 1940 e ivi defunto il 31 Maggio 2013”.
“Io Anselmo Biolchini, nel pieno delle mie facoltà, lascio a mio figlio Marco la vecchia FIAT 1100 bicolore d’epoca con la richiesta che lui ritrovi a Torino un certo Nivula o suoi parenti ed eredi e che la regali a loro, in segno di parziale rimborso per il danno che causai al suddetto Nivula quando venne tanti anni fa a Montese con il suo Torpedone.

 


Ieri


Marco aveva un dubbio:  E come tornaste?
 Non me ne parlare, dovemmo accettare il passaggio da un pullman di milanesi. Che figuraccia!
 

Mauro Gandini

  Cultura: "Racconti on the road", premiati i vincitori del primo certame letterario dell'Anas