Cultura: "Racconti on the road", on line "Un'autostrada lunga una vita" di Eugenia Anna Martucci
I racconti del primo certame letterario dell'Anas
UN’AUTOSTRADA LUNGA UNA VITA
Avevo 15 anni. Avevo la gioventù e non sapevo che farmene. Sì, stavo così alla vigilia della partenza. Anzi, non volevo nemmeno partire. L’infelicità, pensavo, ti segue ovunque e ti trova. Io me la sarei portata appresso, dentro, e l’avrei trovata pure fuori dal finestrino. Ma tant’è. I miei genitori non mi avrebbero lasciata a casa, da sola e nemmeno sospettavano che avevo il buio dentro. Avrei fatto qualsiasi cosa, poi, per allontanarmi dalle versioni di greco che mi erano state appioppate per le vacanze di Natale. Mettere un po’ di chilometri tra me e i libri, mi avrebbe aiutata a dimenticare che non mi sentivo all’altezza di cotanta sapienza elargita ai miei pochi anni.
Mi trascinai quindi in macchina e mi portai dietro tutto il mio malumore. Al resto ci aveva pensato mia madre.
Carichi come un Titanic, partimmo. L’aria era umida, ma la temperatura mite. Mi accoccolai dietro, con lo sguardo rivolto ai miei pensieri.
Il primo tratto dell’A14 mi riproponeva quel paesaggio pugliese che conoscevo, distese di olivi e olivi e olivi ancora, di un verde spento, pure lui. Erano gli anni '80 e all’epoca le radio in macchina era meglio tenerle spente, gracchiavano.
Così, in sottofondo, solo il rumore del motore e dei miei pensieri.
Avevo cominciato con gioia il ginnasio, ma i miei entusiasmi si erano spenti davanti alla pretesa degli adulti che io restassi sui libri ore interminabili. Non ne avevo voglia. Dovevo dedicarmi a comprendere il mondo, le amiche, gli amori. Non avevo troppo tempo da dedicare ai Cesari, agli Orazi, ai Platoni. C’erano nella mia testa Pasquali, Maurizi, Giuseppi, che, da studiare, richiedevano un bell’impegno. E poi, le mie amiche, imperscrutabili, bambine o donne, non si era ancora capito. Capricciose e incostanti, questo era sicuro.
La sensazione di essere in viaggio, un viaggio lungo, cominciavo ad averla al bivio con l’A16; magari mi sarebbe piaciuto continuare qualche volta per Pescara, ma era sempre Napoli la nostra meta. Allora c’erano ancora i nonni che ci aspettavano. Pensavo che mai per me sarebbe cambiata questa cosa, avrei sempre svoltato per l’A16. Il tempo mi avrebbe contraddetta: le strade nella vita cambiano anche troppo presto, sicuramente quando non si è ancora pronti.
A Candela cominciai a distrarmi e ad accorgermi che c’era il mondo fuori dal finestrino. Lasciata la monotonia della pianura foggiana, finalmente il paesaggio si faceva più interessante e vario. Si alzavano le colline dell’Appennino e con esse i miei pensieri cominciavano a essere meno grevi, più universali. Il malumore veniva pian piano sostituito da una leggera ebbrezza e dalla considerazione, sempre la stessa, che il viaggio fosse terapeutico. Sì, pensavo che il viaggio mangia i dubbi con i chilometri e ti regala orizzonti diversi, insieme a nuove prospettive e visuali più interessanti. Dentro e fuori. C’era qualcosa di inquieto nel paesaggio, o l’inquieta ero io, man mano che avanzavamo verso l’Irpinia. Li avevo ascoltati distrattamente i telegiornali in quei giorni, dopo quella spaventosa domenica pomeriggio, un mese prima appena. Il 23 novembre; io ero al solito affaccendata nella versione dal latino di turno e mi annoiavo.
Poi ci fu un boato, mia madre che in un lampo ci raccolse in corridoio; era impossibile mantenere l’equilibrio nelle stanze che dondolavano. Ci precipitammo nelle scale e cercammo di raggiungere le strada, mentre tutto ci ballava intorno. Fummo in strada e ci rimanemmo quella notte. Inconsapevoli. Vinti dalla stanchezza e dal freddo, risalimmo quando già si era fatto giorno. Dormimmo, spaventati. Poi, il primo telegiornale ci informò che era stato un terremoto devastante, che aveva spazzato via l’Irpinia, quello che non ci aveva fatto dormire quella notte. Ero lì, dopo pochi giorni, che leggevo i nomi di quei paesi che lo strazio aveva resi famosi: Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni, Laviano. E la distruzione era visibile dall’autostrada, dai tetti di quelle casupole che avevano resistito per anni alle intemperie; adesso, erano cumuli di pietre e calcinacci. Vallata, Grottaminarda. Con la mente ripercorrevo le notizie dei telegiornali, l’andirivieni delle autoambulanze.
Il manto autostradale era intatto, ignaro di tutto, ignaro del male e del dolore. Cercavo tracce di morte, dovevano esserci. Tutto taceva e lì, Avellino Ovest leggevo sull’indicazione stradale, c’era nebbia. E nebbia era quella che mi sentivo dentro. La nebbia, però, dirada; quella che c’era fuori dal finestrino, verso l’uscita dell’A30, Caserta-Salerno e la mia vita, paragonata a un cataclisma naturale, era solo un capriccio. Il viaggio continuava e si lasciava alle spalle le mie elucubrazioni insieme a un terremoto devastante. La nebbia diradava e, quasi all’improvviso, apparve da lontano il Vesuvio, con la netta sensazione che tutto fosse passato. La mia noia, il mio dolore, fecero spazio alla speranza, quella della ricostruzione. Ed ecco il casello di Napoli. Andavo incontro alle feste, al vociare indistinto dei bambini di casa, alla gioia del Natale. Mio padre pagò il pedaggio di un viaggio, molto più lungo dei suoi 264 km.
Poi, i nonni sono andati via e non ho percorso più quel tratto autostradale, non c’era più nessuno al di là del casello di Napoli da andare ad abbracciare. Sono andata però, per caso, a trascorrere qualche giorno in Irpinia, con mio figlio e il mio uomo. Ho interrotto a metà il tragitto autostradale che ero solita percorrere da bambina e sono uscita a Irpinia Sud. Durante il viaggio ho ascoltato dell’ottima musica, ho guardato fuori dal finestrino un paesaggio immutato, fuori. Il paesaggio, quello di dentro, era tutto diverso: niente nebbie, né malumori, né compiti da fare. Tutto era andato come doveva andare e a qualche casello ero uscita pure io per arrivare a destino.
In Irpinia tutto era moderno e curato, le case, le fabbriche, le scuole. Le persone allegre, come se avessero dimenticato. Ma non avevano dimenticato, tutti avevano lasciato qualcuno sotto le macerie. Tutti lasciamo qualcosa sotto le macerie, alle spalle, mentre la strada continua a correrci davanti.