Paolo Astaldi: "Non temiamo Impregilo-Salini ma lo stallo dell'Italia"
L'intervista di Repubblica Affari e Finanza al presidente dell'omonimo gruppo delle costruzioni
Roma, 29 aprile 2013 – «È stata una sorpresa per noi scoprire che il governo norvegese è entrato nella nostra compagine sociale con il 2%. Naturalmente siamo molto soddisfatti, è una conferma che stiamo dimostrando di saper operare secondo le best practises internazionali». Paolo Astaldi, presidente dell'omonimo gruppo di costruzioni, esce dall'assemblea dei soci di mercoledì scorso con un motivo in più di compiacimento, oltre ai numeri del 2012, che hanno visto ricavi in crescita del 4,1% a 2,5 miliardi, con un utile aumentato della stessa percentuale a 74 milioni di euro e un dividendo fissato a 0,17 euro per azione. La recente Opa di Salini su Impregilo, e il prossimo arrivo sul mercato - dopo l'annunciata fusione tra le due società - di un competitor più grande e più forte, invece, non preoccupa Astaldi: «La concorrenza fra noi avviene soprattutto sul mercato italiano, che però purtroppo non esiste quasi più. All'estero, invece, spesso ci presentiamo insieme per contrastare i consorzi delle imprese straniere. E anche in Italia ci sono progetti in corso in cui collaboriamo».
Dr. Astaldi, la decisione di quotarvi in Borsa, quasi undici anni fa, ha dunque dato buoni frutti?
«Sì, e l'ingresso di Norges Bank ne è una controprova. Come vede, le imprese italiane all'estero non sono così vituperate come da noi. In più, in questi undici anni abbiamo sempre remunerato i nostri azionisti. Le cose sono molto chiare: se un'impresa va bene offre dei dividendi, salvo che in situazioni straordinarie».
L'ingresso in Piazza Affari vi ha obbligato a un percorso di maggiore trasparenza. In un mondo come quello delle grandi opere potrebbe sembrare un freno. È stato così?
«Nient'affatto. La presenza sui mercati regolamentati è stata per noi una garanzia, abbiamo potuto offrire un track record di informazioni sempre attendibili. E ciò ci ha premiato in vari modi».
Ad esempio?
«A parte l'ingresso nell'azionariato di soci importanti, c'è anche la maggiore facilità di acceso ai capitali. A gennaio abbiamo emesso un bond da 130 milioni di euro. È la prima volta che ciò avviene, a parte quello che fu emesso prima della quotazione in Borsa per "testare" il mercato. L'emissione obbligazionaria ha avuto un grande successo, richiamando richieste pari a cinque volte l'offerta, tanto che presto la ripeteremo».
Che caratteristiche ha questo bond?
«È un "equity linked", un'obbligazione convertibile che lascia una più ampia libertà ai sottoscrittori e alla stessa impresa. A un anno dall'emissione, l'obbligazionista può chiedere di convertire il bond in azioni a un cambio predeterminato. Mentre l'azienda può decidere di rimborsare in azioni o in contanti».
Ora che Salini ha vinto la battaglia su Impregilo, temete l'arrivo di un concorrente più agguerrito di quanto non lo fossero le due imprese separatamente?
«Saremmo certamente più preoccupati se in Italia ci fosse un florido mercato delle opere pubbliche. È nel nostro paese, infatti, che avviene perlopiù la concorrenza. All'estero, invece, operiamo già spesso in pool con Impregilo e Salini contro i grandi consorzi spagnoli, brasiliani, cinesi».
II mercato Italiano dei grandi lavori è il cruccio di tutti i costruttori.
«Per forza, non esiste quasi più. Questo è ormai un problema drammatico».
Negli ultimi giorni gli operatori hanno leggermente penalizzato il vostro titolo per il fatto che - dicono i rumors - voi avete un 40% circa del vostro giro d'affari in Italia. Impregilo, invece, ha soltanto il 15%. Hanno fatto bene loro?
«È sconsolante e triste che un costruttore, per lavorare, debba andare fuori dal proprio paese. Impregilo ha fatto in passato questa drastica scelta. Anche noi l'abbiamo fatta, visto che lavoriamo per oltre il 60% fuori dai confini nazionali. Tuttavia noi abbiamo creduto e ancora crediamo nel nostro paese. Siamo convinti che prima o poi il governo debba sostenere il sistema Italia. Il paese ha un disperato bisogno di opere pubbliche. E poi non esiste al mondo alcuna nazione in cui un'impresa sia diventata forte all'estero, com'è successo a noi, a Impregilo e a Salini e a tanti altri, se non può basare la sua crescita anche sul mercato interno».
Lei ha spiegato perché è conveniente essere quotati. Sembra che anche Salini lo abbia compreso, se è vero quel che ha detto, e cioè che la società continuerà a stare in Borsa anche dopo la fusione. Ma allora perché gli altri grandi operatori, da Condotte a Pizzarotti, non percorrono questa strada?
«Non mi sento di criticare le scelte degli altri, che avranno dei buoni motivi per restare fuori da Piazza Affari. Tuttavia, facendo un'analisi più generale, che riguarda un po' tutta l'economia, non sono stato io a notare che in Italia esiste un forte capitalismo familiare, poco propenso a scegliere una gestione manageriale e quindi ad aprirsi al mercato. Però anche vero che qui l'iter di quotazione non è particolarmente incentivante, ci sono troppi appesantimenti burocratici».
Lei dice che il mercato delle opere pubbliche è quasi scomparso. È ovvio, i soldi non ci sono e, date le condizioni del bilancia pubblico, non ci saranno. Ma allora perché non si procede con il tanto acclamato strumento del project financing?
«Il project financing funziona anche in Italia. Noi stessi abbiamo realizzato l'ospedale di Mestre e altri quattro in Toscana più la Linea 5 della metro di Milano. Ma c'è un problema: si sta assistendo a una sorta di "demonizzazione culturale" di questo strumento: si dice che così le opere pubbliche costeranno di più. Ma è ovvio che sia così».
Perché?
«Perché al costruttore i soldi costano più che allo Stato. Ma se Io Stato i soldi non li può più mettere, non è meglio realizzare quell'opera e generare occupazione piuttosto che non fare niente?».