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Briciole di pane

È il tempo dell'Africa, anche per le infrastrutture

Il continente sta diventando sempre più attraente per gli investitori

“È il tempo dell’Africa”. Il noto centro di formazione e consulenza per gli investimenti Ernest & Yung ha appena pubblicato un survey sull’Africa in cui sostiene per la prima volta che l’Africa sta diventando sempre più attraente per gli investitori, soprattutto se si guarda a un orizzonte di lungo termine I “Business Leader” mondiali hanno pianificato nuovi investimenti o hanno ampliato quelli esistenti a dimostrazione del fatto che la capacità dell’Africa di condividere i nuovi progetti di investimenti esteri diretti è considerevolmente migliorata nell’ultimo decennio. Si prevede che entro il 2015 gli investimenti in Africa raggiungeranno i 150 miliardi di dollari, confermando un trend di crescita che dal 2003 al 2010 è stato del 13%.
Questa improvvisa attenzione nei confronti di un continente dimenticato, in preda a conflitti, guerre tribali, miseria che si considerava “perso” per lo sviluppo non è frutto del caso o dell’improvvisazione. Ma è frutto di un lungo processo di riforme economiche e regolamentari che è iniziato 20 anni dopo la  Guerra fredda. In questo periodo – anche se pochi se ne sono accorti – in molti paesi africani l’inflazione è stata messa sotto controllo, il debito estero ridotto, le aziende statali privatizzate, i sistemi legali e regolamentari rafforzati. Queste riforme hanno migliorato il clima economico e il business environement. Ma i fattori decisivi sono stati il boom dei prezzi delle materie prime e gli investimenti nelle infrastrutture che hanno permesso di raddoppiare il ritmo della crescita rispetto al decennio passato. Fra il 2000 e il 2010 troviamo 6 economie africane fra le prime 10 che sono cresciute di più nel mondo.

Il Rapporto di Ernest & Young mette in evidenza che gli investitori dei paesi emergenti e in particolare dei BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) sono più ottimisti e attivi nei confronti dell’Africa. Anche se più cauti, tuttavia, gli investitori dei paesi  sviluppati sono ancora i maggiori investitori. I primi infatti considerano l’Africa un fattore chiave per la loro stessa crescita in quanto fornitrice di materie prime, mentre i secondi – dopo una lunga fase di abbandono – guardano all’Africa come a un potenziale mercato del futuro.
In generale gli investimenti si concentrano in tre settori strategici : materie prime, infrastrutture, e industria manifatturiera. L’industria estrattiva delle materie prime è stata di gran lunga il settore che ha assorbito più investimenti con il 44%, seguito da petrolio e gas con il 21%; costruzioni e trasporti con il 20% e telecomunicazioni con il 13%.

La rete stradale è migliorata e si stanno disegnando i primi corridoi transafricani : 1) quello che da N’Diamena nel Ciad si dirige a sud a Banqui nella Repubblica Centro Africana per poi raggiungere Yaoundè nel Camerum e il porto di Duala e scendere nel Gabon, a Kinshasa in Congo per  raggiungere Luanda capitale dell’Angola; 2) il corridoio che da Lusaka in Zambia raggiunge Durban in Sud Africa; 3) quello trans- oceanico che da Maputo, in Mozambico sull’Oceano Indiano arriva a Johannesburg e poi si biforca con una direttrice che va a Cape Town sul Capo di Buona Speranza e un'altra che tocca la capitale della Namibia Windhocek e il porto di Walvis Bay sull’Atlantico.

Fino all’ultimo decennio del secolo l’accesso limitato ai trasporti, ai servizi di telecomunicazioni e di energia e all’acqua potabile era un’ipoteca che inibiva lo sviluppo dei paesi dell’Africa subsahariana. I sistemi di trasporto basati unicamente sul trasporto su strada erano fortemente carenti e mancavano le connessioni fra un paese e l’altro anche se confinanti. Le risorse idriche erano e sono ancora ripartite in maniera disomogenea e soggette e forti oscillazioni stagionali. Buona parte della popolazione non aveva accesso all’acqua potabile e ai servizi sanitari di base. Oggi i problemi rimangono, ma qualcosa è migliorato.

Di fronte a queste sfide l’Unione Europea lanciò un partenariato con l’Africa per lo sviluppo delle infrastrutture, che si basava sugli obiettivi definiti dal Piano d’azione per le infrastrutture dell’Unione Africana e del NAPAD (Nuova Alleanza per lo Sviluppo dell’Africa). 
Tale partenariato si concentra su 3 asset strategici : 1) le infrastrutture che favoriscono le interconnessioni a livello regionale e fra paesi confinanti, i collegamenti marittimi, fluviali, il potenziamento dei porti ed aeroporti; 2) l’energia per permettere l’estensione delle reti e le connessioni transfrontaliere; 3) migliorare la gestione delle risorse idriche a livello nazionale e locale al fine di permettere l’accesso all’acqua potabile e a condizioni sanitarie normali a un numero crescente di persone anche nelle zone rurali.
Per finanziare queste operazioni la UE ha utilizzato le risorse regionali e nazionali del 10 Fondo europeo di sviluppo (FES), ossia 5,6 miliardi di € più altri fondi fiduciari.

Nello stesso periodo anche la Cina ha investito miliardi di dollari in Africa per assicurarsi le risorse naturali e le materie prime di cui ha bisogno e affermare la sua influenza economica e politica sul continente africano. La Cina presentandosi “come il più grande paese in via di sviluppo del mondo” ha conquistato la fiducia dei paesi africani, anche di quelli più poveri e abbandonati da tutti, e ha stretto con essi accordi molto vantaggiosi  rispetto a quelli occidentali. Tali accordi, definiti “win win”, apparentemente basati sulla parità e reciproci vantaggi, nascondono parecchie insidie di cui solo ora i paesi africani cominciano ad accorgersi. Essi non prevedono alcuna discriminazione per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani. Le uniche condizioni poste dalle autorità cinesi è di riconoscere la Cina come economia emergente che consente a Pechino di evitare contenziosi in sede di WTO, di non intrattenere rapporti con Taiwan e una reciprocità in materia di apertura commerciale che si risolve nell’approvvigionarsi di materie prime (come rame, ferro, nickel petrolio) di cui l’economia cinese ha “fame” e di riempire questi paesi di prodotti cinesi a basso costo.

Come risultato di tale politica il volume dell’intercambio commerciale tra Cina e Africa negli ultimi 6 anni si è decuplicato, passando da 50,6 mld di US $ nel 2004 a 106,8 nel 2009, con un incremento annuo del 33%. Nel 2009 le esportazioni della Cina in Africa sono state di 50,8 mld e le importazioni di 56mld di US $ (di cui petrolio, gas e minerali rappresentavano l’86% del totale). I principali partner africani della Cina sono : Angola, Sud Africa, Zambia, Sudan, Algeria. Alla fine del 2008 gli investimenti esteri diretti della Cina in Africa ammontavano a 7,8 miliardi di dollari. Inoltre la Cina si impegna anche nella costruzione di infrastrutture (strade, ponti, linee elettriche ferrovie) apportando capitali, know-how, tecnologia ed anche manodopera. In genere queste infrastrutture sono finalizzate a migliorare la rete di trasporti che dalle zone minerarie porta alla costa, a rafforzare le strutture portuali e i relativi servizi. Soprattutto quello che viene apprezzato dai leader africani è che l’intervento cinese nel settore è veloce, efficiente e non condizionato da clausole “democratiche” e di rispetto dei diritti umani.

In Europa ci si lamenta dell’”invasione cinese” dell’ Africa e  viene evocato il pericolo di perdere la poca influenza che resta  e soprattutto la corsa all’accaparramento di materie prime strategiche. Come ha dichiarato recentemente il presidente del Senegal Wade: “In meno di 10 anni di cooperazione con la Cina, l’Africa ha ottenuto molto di più di quanto ha avuto in 400 anni di relazioni e chiacchiere con l’Europa”. Ora che anche un “santuario” del capitalismo come Ernest & Young  ha indicato l’Africa come un potenziale mercato del futuro verso cui indirizzare gli investimenti, è tempo che gli europei prendano coscienza che l’Africa è cambiata, che è sbagliato vedere l’Africa come un unicum uniforme e  ragionare solo in termini di aiuti allo sviluppo e non di investimenti diretti, basati su una cooperazione paritaria. Se le infrastrutture sono il driver per lo sviluppo, è su queste che gli investitori europei devono puntare.

Giancarlo Pasquini