Cultura: "Racconti on the road", on line "Il venditore di capperi" di Flavia Montuono
I racconti del primo certame letterario dell'Anas
IL VENDITORE DI CAPPERI
Scende dalla nave al Porto di Napoli coll’Ape, trasporta ceste ricolme di capperi di Salina e cucunci di Lipari, li copre con le foglie tenere di vite e sale scuro e sporco che raccoglie in una salina abbandonata. Li porta a Cetara, dove li lavano, salano e chiudono in colorati barattoli per venderli a prezzi elevati ai turisti. Una volta all’anno, perché è costoso per lui prendere la nave e poi da Napoli arrivare fino a Cetara. Esporta capperi, la puzza di zolfo e sangue di tonno. Importa puzza di colatura di alici, di colate laviche e limoni grandi come cedri. Il venditore di capperi è un uomo vecchio e magro, il suo viso e le sue mani sono cotte dal sole e le rughe si arrotolano scurendo ancor di più la pelle, i folti capelli bianchi non smorzano occhi celesti acquosi sopra un acuto naso e una bocca stretta e senza labbra da cui pende un rametto di vite.
La gente sa poco di lui. Marinai della SNAV l’hanno visto imbarcarsi a Salina, Stromboli o Lipari, sempre solo, e gli eoliani narrano che il venditore di capperi sia di Alicudi e abbia avuto un figlio, o forse era un fratellino, portato via da un’onda mentre pescava su uno scoglio.
In terraferma nessuno l’ha visto in piedi, le spigolose ginocchia puntano sotto il manubrio e sul pianale poggiano le dita di lunghi magri piedi nudi. Il frastuono assordante del malmesso tre ruote avvisa del suo arrivo a Cetara. Qualche ragazzo scarica la merce, lui mugugna, prende i soldi, i limoni, mugugna e riparte.
Lo conosco meglio di chiunque, qui. Ricordo un ragazzo dalla voce forte e chiara, occhi vivaci, mani determinate e lo stupore che l’avvampò quando mi intravide. Aveva attraversato cittadine all’ombra del Vesuvio e paesi su di un mare nascosto, chiuso fra case e genti, urla e stridori, fino al verde dell’alto Monte Finestra che creava lugubri ombre sulla strada spaccata dal sale che il vento spingeva a sbattere sulle colline. Aveva affrontato rumorosamente curve che si aprivano al sole. Quella prima volta si lasciò alle spalle la medievale Cava dei Tirreni. Dall’alto delle colline intravide Salerno, come in una verde galleria in cui il sole passa orizzontale. Godeva di quel buio fresco e canticchiava. Era felice, e lo fu ancora di più quando la parete destra della montagna scoscese e il suo sguardo si aprì sul mare. L’odore umido del bosco si diradò, e le sue narici inspirarono il sale caldo che evaporava dal mare. Si parò innanzi a lui la cupola araba della chiesa di Vietri e il suo sguardo si allontanò verso Capo Palinuro, ripercorrendo lentamente il golfo di Salerno: spiagge sabbiose, isole lontane, fino al porto, e rivide Vietri e me. Lì ha inizio il mio percorso fra aspre rocce, improvvise gole, spicchi di terra, e il sole che crea stelle di giorno fra le piccole onde silenziose. Le sue orecchie percepivano il fruscio delle foglie, lo spiegare delle vele, il suono familiare delle reti che venivano arrotolate sulle barche lavate dalla pesca notturna.
L’uomo si sente parte del mondo quando i suoi occhi penetrano l’orizzonte, si può confondere e fondere nel mare, sotto cieli fermati solo da terre lontane. E si può perdere col passare del tempo. Da non tornare più. Ma allora il venditore di capperi aveva occhi piccoli e frettolosi e narici giovani, mani curiose e vergini che toccavano in un veloce sentire.
Per me fu un colpo di fulmine: la scia di profumo delle Eolie, il suo sorriso, il suo lento passare e osservarmi con complicità. E anche il suo cappello fatto a mano con fili di corde di reti da pesca, dalle falde larghe e odorose di sangue di pesce e, sotto, il suo sguardo avido e sospeso in attesa. Sguardo che conserva ancora.
Quel giorno operoso di fine giugno Cetara cinguettava fra il vento caldo e il chiacchierio lento, il venditore di capperi suonò il clacson e da un negozio uscì il grasso proprietario con la pancia rosolata scoperta: “Ragazzi”, chiamò, “scaricate!”. Poi si appoggiò allo sportellino, il vecchio guardava avanti e non si girò, e disse: “È l’ultima volta, e non solo per me, li portano dalla Grecia, dalla Turchia e costano la metà”, attese, ma il vecchio non disse nulla. Tirò fuori dalla tasca un pacchettino con i soldi e glieli porse. Il vecchio sembrava neanche respirasse, le rughe immobili, allungò la mano senza girarsi, allora fu che le dita tremarono stringendo il pacchettino.
Ripartì con uno sbuffo nero e fetido. Mi feci morbida e accogliente, tiepida al suo passaggio, le ruote mi rigavano. Non c’era più vento, le barche a vela in acqua andavano lente a motore, le vele arrotolate sugli alberi, e il mare, senza vibrazioni, assorbiva il sole restituendo lampi accecanti a ogni curva.
Il sole iniziò la sua discesa ombrosa, il venditore di capperi arrivò al fiordo di Furore e arrestò l’Ape.
Su Furore sono ponte, alto sul mare, che rientra a lambire una piccola spiaggia, circondata da alte rocce e case squadrate abbandonate con l’intonaco color della sabbia. Sono arco, fra cielo e mare. Sospesa nel mio tempo. Danzatrice immobile.
Sul ponte c’era un ragazzino in piedi, aveva gettato una lunga lenza e in silenzio aspettava che abboccasse un pesce. Si girò verso l’Ape e vide dei piedi nudi che sbucavano fuori spingendo le gambe magre e snelle del vecchio venditore di capperi. Poi sentì strattonare la lenza, guardò un po’ giù e iniziò a tirare. Il vecchio era qualche metro più in là, il suo sguardo lontano, il collo piegato, la schiena curva, le mani sul basso parapetto di pietra. I gomiti cedevano.
La mente può sprofondare nella bellezza, solo lì arriva il conforto e poi la quiete. I colori che si rincorrono fra le leggere onde, il suono che producono nello sbattere sugli scogli, lo scivolare sui sassetti della spiaggia. E la strada che conserva e accompagna ogni storia. Questo sono. Opera dell’uomo, del suo senso nel mondo, sono qui come ci fossi sempre stata, della stessa pietra della montagna che mi sovrasta, a non rompere l’incantesimo del mare che incontra la terra, dell’uomo che ne sente l’appartenenza. Mi hanno fatto per guardare lontano, sotto cieli di cui vedo le stelle nel buio della notte, fra piccoli rivoli d’acqua che scivolano dall’alto quanto la pioggia si fa forte. Sono nata per confortare, abbracciare il viaggiatore, l’uomo, nel suo perenne stupore quando ricorda da dove viene.
E mentre il venditore di capperi confondeva i suoi occhi nel confine estremo in cui mare e cielo si toccano e poi c’è solo il precipizio, il mare si increspò, gonfiando piccole e veloci onde che tesero improvvisamente la lenza facendo sanguinare le mani del ragazzino. Il vecchio girò lo sguardo. Il giovane pescatore non lasciava la sua preda, con i piedi puntati sotto il muretto e le ginocchia piegate, tirava e strattonava, stringeva la bocca e gli occhi. Le mani unite su un sottile filo di nylon.
“Lascialo!”, la voce del venditore di capperi, bassa, calda di zucchero, fu imperativa. Il giovane pescatore non si girò. “No!”, urlò con una potente voce che aveva stretto in gola per dare più forza alle braccia. E perse un po’ di lenza.
Il collo del vecchio si tese, i gomiti sollevarono la schiena curva: “Allenta la lenza, allentala! Girala intorno alla vita. Dagli a sinistra con le dita e poi a destra. Tira su! E lascia! Ora strattona. Sì. Tira!”.
Il ragazzino pescatore seguì la voce del vecchio. Per un attimo, quando il suo corpo fu tirato al basso parapetto e piegato verso il mare, vidi avvicinarsi a lui il respiro del venditore di capperi. Sale grosso, acre limone, fiori di cappero. E quasi addosso le sue braccia. Poi il pescatore tirò deciso e portò su il pesce. Sfinito.
“Uao”, urlò felice. “Lo vedi, Vecchio, che bel pesce grande? È il primo così che pesco”. E spinse la testa nella pancia del vecchio, dando piccoli increduli colpetti. Vidi un rossore rugoso e infantile che saliva sul viso del venditore di capperi. “Bravo!”, disse lentamente.
Il tramonto si fece deciso, il giovane pescatore chiese al vecchio: “Mi dai un passaggio? Sto a Praiano”. Il vecchio annui, e il giovane pescatore saltò dietro l’Ape.