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Briciole di pane

Cultura: "Racconti on the road", on line "Lettera d'amore di un viandante" di Andrea Giannino

Ogni settimana un racconto del primo certame letterario dell'Anas

 

LETTERA D’AMORE DI UN VIANDANTE

 

Prima lettera
Sogno

 

Mia cara amata, mio dolce pensiero,
appena leggerai questa lettera, finalmente il tuo cuore potrà tirare un lungo sospiro di sollievo e le tue membra potranno distendersi e sollevarsi in un lungo canto di ringraziamento al cielo. Assai a lungo nessuna lettera venne a posarsi sotto il tuo sguardo e fin troppo ebbi a tormentarmi sotto l’aria cangiante di Agosto.
Porto a te una richiesta di perdono. Perdona la mia improvvisa fuga senza verbo e tatto.
Come mai, sarà possibile spiegarti con sufficienti parole il rischio necessario corso, per poter attuare un’intima rivoluzione, che cambiasse il mio modo di vivere la mia vita per te? Ho giocato un azzardo assai grande per vedere l’orizzonte da raggiungere; ho preso il nostro comune sorriso e l’ho stracciato in un’anonima notte in cui il letto divenne freddo per la vergogna.
Le mie più sincere scuse sono a te riversate con l’inchiostro e con gli aloni della pioggia e della nebbia.
Questa mia è una lettera che arriva a te del colore della terra che sporca ancora le mie vesti, ha il profumo della zagara e del gelsomino appena raccolto, ha la tenue consistenza della carta offerta alle notti insonni in cui sostituivo la tua bella voce al sogno, disperso oltre la strada dinanzi a me.
A te devo tutto ciò che ti è stato tolto in questi silenti giorni, ti rendo i chiarimenti dovuti e gli stupori raccolti tra le mie righe.
Tutto comincia con un sogno avuto quella buia notte di fine luglio. Il mio primo vero viaggio, inconscio e compiuto. C’ero io e c’era un crocevia di parole e concetti che attraversavano la mia figura come indaffarate, parlavano e discorrevano di studi ed esperienze vissute, talvolta lanciavano spettrali anagrammi su argomenti dalle radici trascurate e, ogni qualvolta aprivo bocca per richiamare timide attenzioni, una nuova frase mi intimava l’arresto della lingua, per onorare la sua lode alla tua persona.


Afferrando la tela onirica, mi resi conto della metafisica presenza di quattro strade, tutte distinte per forme, diramazioni e altitudini, tutte affacciate verso un’improbabile orizzonte senza sole né cielo. Le loro carreggiate erano lastricate di segni e immagini, i loro cartelli sembravano più ipotesi che indicazioni. Non so quale mistica matrice abbia spronato le mie gambe a muoversi, fui comunque invogliato a scegliere la via alla mia sinistra. Ammetto di non aver mai pensato che anche i sogni potessero designare strade percorribili; mentre camminavo era come essere avvolto da una melanconica sensazione familiare, era come calpestare la mia stessa forma, negando dolore alcuno attraverso l’illusoria pressione delle dita dei piedi.
La mia scelta presto si rivelò ai miei occhi sotto forma di una via fatta di tornanti e salite, faticosa alla vista ma leggera come il passo sostenuto per raggiunger la sua vetta.
La vetta fu l’inizio della schiusa di quel mondo. Venne meno il sogno per lasciar posto a un semplice panorama introspettivo.
In quel panorama c’eri tu, amor mio, distesa sul letto come ti lasciai la sera prima di addormentarmi; c’era ad attendermi un ponte che portava a te, interrotto come il desiderio di poter raggiungerti. In quella triste condizione irreale vi trovai una realtà ben più pesante della realtà stessa.
Chiusi gli occhi e piansi di frustrazione e consapevolezza; ritornai dal viaggio e mi ritrovai sul letto disteso accanto a te.
Tu respiravi piano, ancora immersa in chissà quali nuove partenze, mentre io respiravo l’irrequieto.


Il sogno fu la lanterna che portò lume su un angolo rimasto ancora buio fra noi, ed eccomi qua, a illuminarci con un motivo.
Il motivo sono Io, quindi lo siamo entrambi.
Ho smesso di riconoscere me stesso nelle azioni, nelle parole e nei pensieri che ogni giorno partorisco per interagire con un mondo che mi ha regalato anche te. Ho smesso di avere certezze sull’amore nei miei confronti, ho gettato chissà dove la mia anima, nel mentre il corpo è rimasto beffardo a ripararmi dal massimo del ridicolo.
Ho cominciato in tempi ignoti a riempir di pateticità certi nostri gesti quotidiani; esprimevo ogni cosa a te con limpida armonia verbale ma ignoravo profondamente i tuoi umori. Vedevo solo stanchezza là dove tu gridavi mortificazione, sorridevo ai tuoi acuti singhiozzi là dove non consideravo un più profondo bisogno di proteggerti in un saldo abbraccio. Cosa mai ne seppi davvero delle tue lacrime? Solo dei vacui umori prodotti da una vitrea madre.
Adesso riesci a sentire, mia delizia? Riesci ad accusar meglio le lacune lasciate sul tuo morbido involucro che manca di affetti e carezze?
Tutto questo, dentro di me, l’ho percepito, l’ho sempre pensato, prima o poi avrei agito, e in quell’istanza in cui tutto scorreva e dormiva, mentre la luna brillava quieta e le stelle corteggiavano il manto, io alla fine me ne andai. Cominciai a mirare altrove per raggiungere il cielo di me stesso prima ancora della terra da calpestare. È proprio di questo che si tratta: questo fu l’avvio che giustificò la mia riservata fuga.
Rammenta il mattino dopo la mia improvvisa assenza, fai tesoro prezioso di ciò che ti lasciai sul tuo comodino poco prima di sparire: una bussola in mogano con un ligio ago puntato verso Nord.


Non ho bisogno della sua guida per portare avanti questo cammino: non mi interessa sapere dove andrò; ho solo bisogno di perdermi tra la folla e il cemento, conoscere nuove terre per la prima volta, saper parlare alla pioggia e al vento per trarne vantaggio. Devo trovarmi, ritrovare la mia anima perduta e con lei tornare da te.
Bisogna sempre perdersi per poter ritrovarsi.
Ho così cominciato da tempo questo viaggio senza di te ma con te. Senza un orizzonte ma con mille orizzonti ai quali sorridere, senza un colore con cui sporcarmi ma con mille volti ed espressioni con i quali dipingermi.
Cammino senza meta perché la meta sono io.

Controlla la buca delle lettere quando possibile mia cara: presto tornerai a leggermi.

Il mio affetto è per te,
Il tuo amante, i tuoi pensieri.

 

 

Seconda lettera
Luna


Cara mia sposa,
ho molto spesso dei rimorsi per non aver accolto la possibilità di stringere la tua mano dinanzi ai semplici e fermi spettacoli che l’occasione e il coraggio vanno mostrandomi.
La strada, per i cieli, cosa davvero può offrire la strada che noi umani ancora non abbiamo imparato a scorgerle attraverso? Vedessi quel che vedo io in questi momenti: capiresti anche tu che persino dietro un solido carattere di cemento si cela qualcosa di diverso, di schematico. Enigmi urbani.
Ti parlerò quindi della strada finora percorsa, ti racconterò della mia fuga notturna partendo proprio dalla luce lunare che illuminava le strade; quel brano lastricato che ogni giorno in silenzio percorrevamo assieme.
Un bianco velo di luce mostrava e celava la piccola piazza cittadina, i lampioni mescolavano il bianco a un giallo male impastato e saggiamente diluito dalla pioggia leggera; più lontano dal cerchio dormiente, il mare esalava fiati e forme sonore che andavano adagiandosi sulla sabbia. Salutai l’alba di saracinesche e lavoratori, l’odore di caffè macinato e il rumore di scope battute sul marciapiede; decisi di inoltrarmi verso le ultime reti di stradine e vicoli, ricordai i loro angoli vivi e trascurati e poi mi voltai verso l’autostrada, carezzando il guard-rail.


So già cosa pensi: mi son cimentato in qualcosa di assai proibitivo ma, come ti ho già scritto, fa parte del mio azzardo.
L’inizio di quelle salite, delle curve, delle ripide discese, il ritmo sostenuto di evanescenti automobili dissolte dalla loro velocità, tutte quelle immagini arrivarono come un treno in corsa dai vagoni pieni di riscatto e libertà, e nel mentre proseguivo in preda a quelle scene, la strada ricambiava l’attenzione illuminandomi con altre macchine dai fanali incuriositi, sorpresi, noncuranti o addirittura abituati a posar luce su di me. Ero come un’ombra che vagava allegra e indipendente, una figura nera in cerca di colore.
Sai, tutta quell’atmosfera, quel girare per strade e autostrade sorvolate dal manto blu scuro riempito di stelle, lampioni, neon e semafori, mi ha tanto ricordato il nostro viaggio on the road di un anno fa. Partimmo alle due di notte.
Tu cosa ricordi di quella notte assieme? Io ricordo te che contavi gli alberi affacciata al finestrino, guardavi le colline distese a riposare; ricordo il calore di un thermos vicino al cambio, la radio accesa che trasmetteva e ritrasmetteva all’infinito il primo CD degli XX; ricordo con affetto la squallida bellezza degli autogrill riversata nei banchi di caramelle vicino alla cassa, come un urbano incantesimo che spezzava la monotonia di strisce bianche sull’asfalto; c’eri tu ferma al parcheggio che mi chiedevi sempre cosa ci fosse oltre quell’esercito di lucciole, io che ti rispondevo che altri eserciti ci osservavano, impegnati a percorrere traiettorie cosmiche innalzate contro qualsiasi radice della terra. Ricordo infine il pallido sole seguente e due corpi sigillati in un sol battito di cuore, poi nulla più da scriverci sopra.


Ricordi a parte, vorrei rassicurarti solo un attimo circa la mia organizzazione. Sai bene tu quanto me che è poco elegante ricordare di come ci si prepara anche là dove non vai preparato: un vero viandante sa di poter andare ovunque, poiché là dove la strada è persa e sconosciuta, egli sorriderà sempre prediligendo il labirinto, in quanto il suo occhio fungerà sempre da filo d’Arianna. Ho portato con me l’occorrente sufficiente per sopravvivere, rifugiarmi un po’ ovunque, chiedere passaggi eventuali o prendere mezzi per casi fortuiti o voglia di svolte. Non ho molta fame, dal momento che questa ricerca mi sfamerà in altro, ma non temere: ho risorse alimentari a sufficienza da poter spartire con un’intera carovana di gente, se mai occorresse!
La verità è anche un’altra: un vero viandante sa che la vera fonte di vittoria, sulle incertezze accumulate, si nasconde dietro audaci personaggi pieni di fascino e tormento: la pioggia, la nebbia, la tempesta, il forte vento, il tuono; sono tutti personaggi che quella notte e nelle notti successive incontrai sul mio cammino e che sempre accolsi con ammirazione ed euforia. Più una condizione è avversa, più è buono il frutto che l’uomo saprà cogliere da essa.
Dove ti scrivo adesso, mia dolce signora, è quel che resta di un rifugio costruito lontano dal cemento e dai lamenti in lamiera; qui è appena nato un nuovo pallido infante che mi ha distratto dal sonno e dalla previa attenzione donata a un paesaggio addormentato: era come esserne davvero parte, come poter avvedersi di radici sanguigne che mescolavano plasma e resina, cellule di semi e organi vitali, tessuti in pelle e corteccia.

Qui termina un’altra lettera amore mio. Ti prego di concedermi del tempo per osservare la fine di questa nascita che porterà alla luce la seconda faccia della strada. Solo impastando il tempo con l’osservazione saprò scriverti e intrattenerti.
Mi manchi... Ma senza un noi manca anche me stesso.
Tornerò presto, prometto ancora.

Ti amo,
Il tuo sposo.

 


Terza lettera
Sole


Cara mia gioia,
ti prego torna a me, al cuore e alla mente, abbracciami nel silenzio che ci accomuna, in questo che è stato un tratto pieno di tortuosi cammini e scosse al petto. In questi ultimi passaggi di nuvole e pallido sole ho assistito a uno stormo di eventi che han preso il volo per afferrarmi come rapaci con la preda.
Mi appello a te e alla tua sapiente riservatezza, che sa mettersi da parte ogni qual volta la mia mano cede il passo durante la scrittura di queste parole. Aiutami mia gioia mentre ti narro sommesso quest’ultimo fascio di tempo, pieno di sorrisi e di attimi lascianti il segno.
Ti lasciai con in mano una lettera pregna di sapori notturni e freschi sentori di libertà, ora è il momento di renderti calore, consapevolezze, responsabilità e luci diurne.
Il viaggio riprese dalle ultime cose raccolte dal rifugio costruitomi; misi il mobile giaciglio nel mio zaino, resi il prestito alla madre terra e alla fine respirai nuova aria, fresca e frizzante.
Mi spostai più in alto quel mattino, per vedere orizzonti e strade da un’altra intima prospettiva.


La cima della collina mi accolse con un tacito sospiro di sollievo, come per calmare ancor di più il mio corpo e aiutarmi a comprendere meglio ciò che succedeva attorno a me. Da lassù, tutto ciò che credetti di aver appreso, fu stravolto per trasformarsi in qualcosa di non ancora previsto: vidi la pace e la quiete cromatica cullata da un soffio etereo; vidi strade e percorsi in lontananza, puntuali nel sorreggere e aiutare nuovi passanti in movimento; ebbi l’infantile curiosità di scoprire se mai nessuno si sia chiesto chi ci sia lassù a guardarli, cosa mai stia succedendo dentro quelle abitazioni isolate e immerse nel verde di una collina o di una montagna; mi ritrovai ad avere istinti fraterni di poter dire loro ciao, dar beneficio di un semplice augurio di buona giornata. L’erba e le piante arrivavano a sfiorare l’opera dell’uomo tradotta in ponti arcuati e biforcazioni verso vie statali, c’erano prosiegui su alti tralicci e spartitraffico, stazioni di servizio o enormi aree industriali piene di furgoncini e camion, operosi come formiche.
Fermai quel panorama, quasi impossibile l’idea di distogliervi lo sguardo, e scesi a valle nuovamente per poi ritornare con coraggio sui miei passi.
Ho deciso, mia diletta: quando tornerò da te, ti porterò un giorno lungo le tappe di questo cammino. Il deserto è un grande momento di riappacificazione con se stessi, ma la condivisione di un bene con chi è destinatario del tuo amore è come una gemma apicale in una prima foglia di tè bianco: è cosa pregiata e deleteria da lasciare incolta.


Tra le cose raccolte in quel dì, ci fu anche un episodio dalla piega dolorosa, tanto per me quanto per chi mi ritrovai a reggere tra le mie braccia un po’ tremanti. La strada si estendeva come sempre davanti ai miei piedi, venivo affiancato da edifici di varia natura, osservato in modo ossessivo dagli intervalli rossi dei telefoni SOS e poi raggiunto dall’odore riconquistato di cappuccini e marmellate di un agriturismo o bed and breakfast di passaggio. Fu così per svariati giorni, uno spettacolo diurno e notturno che non finì mai di stancarmi, come in preda ad una strana forma di avidità. Un giorno, giunsi a una biforcazione offerente una via per un iter statale oppure una discesa per la campagna. La scelta prese la mia testa. Ma non riuscì mai a muovere i miei passi nei secondi che non mi prepararono a testimoniare la sbandata di una moto e la collisione inevitabile contro una piccola berlina verde. Ci fu un volo, il motociclista scavalcò il guard- rail e la moto si fermò ancora rabbiosa a pochi centimetri dalla mia figura che, per la sorpresa, si limitò a indietreggiare, inciampare e cadere.
Un tratto limite della strada venne squarciato dalla piccola automobile, la ruota destra si affacciava fuori dalla carreggiata, la carrozzeria sembrava morire in tutto il suo punto d’impatto ed esalava fumi acri dal muso schiacciato.
Istinto.
Flash.
MUOVITI.


Gli arti si mossero come furia, alzandosi e spostandosi come travolgente libeccio, impattarono senza cognizione di dolore verso la macchina e videro con i loro occhi sgranati un’anziana figura boccheggiare, sfregiata da una scarlatta ferita alla tempia, sorella gemella di una notevole crepa ramificata nel vetro. Cieli, mai creduto che essere un testimone potesse far così male tanto da bruciarsi di adrenalina.
Feci uscire il vecchio conducente dalla sua automobile, lo distesi con cura per terra, altro al momento non feci se non prendergli la mano: volevo calore. Calore. Non per me. No. Possa esser stato come gelido inverno il mio corpo pur di sentire solo il sangue pompargli caldo sotto l’epidermide. Mi uscirono poche parole di conforto dalla bocca, ma venni subito ripreso da un’altra voce rotta dal pianto, quella di un giovane che si precipitò zoppicando verso di noi. Un giovane motociclista.
“Ho sbagliato! Mio Dio, ho sbagliato!”, ripeteva come un forsennato nel mentre afferrava l’altra canuta mano. Tremava e mi guardava come in cerca di stimoli che lo placassero. Sospirai e feci un’azione a me proibita: presi il mio cellulare, tenuto spento sin da quando mi son messo in fuga, tolsi la scheda dal suo interno, lo accesi e chiamai il numero di emergenza. L’attesa fu come interminabile ma mi lasciò un chiaro fardello che, ancora adesso che ti scrivo, lo sento tirarmi giù dalle nuvole.


Il motociclista mi abbracciò piangendo e singhiozzando, reclamava colpevolezza e malediceva il suo orgoglio sfogato in un tachimetro messo alla prova. Feci al vecchio le dovute assistenze di emergenza, lui respirava e rantolava e teneva costantemente gli occhi chiusi, tanto da innestare in me un malsano timore di scoprirlo morto da lì a qualche minuto. Controllai i suoi documenti e appresi le sue generalità da un biglietto da visita di un lavoro ormai in pasto alla pensione e di medicine che in quel momento non potevano sollevarlo. Il vecchio aprì gli occhi d’un tratto e superò la mia figura per guardare il giovane... ma non vi era ira nel suo sguardo. Lo guardò e si mise anch’egli a piangere. Cominciò così un dialogo che è rimasto stampato nella mia testa:
“Signore! Signore! La prego mi ascolti e non dica niente, la prego! È colpa mia! È tutta colpa mia! Sono andato troppo veloce! Troppo veloce!”.
“Ragazzo...”, interruppe l’anziano con voce dolorante ma ferma. “Datti pace per un attimo e stammi ad ascoltare”.
“No, la prego! Non dica niente, la scongiuro! Sono già pronto a dire tutto ciò che devo! A chiunque, ambulanza o polizia che venga a interrogarmi! È colpa mia, io non volevo!”.


“Ragazzo mio, prego io la tua giovane ingenuità di dare ascolto ad un vecchio che ormai sta per radicarsi nella terra e un giorno sotto di essa. Ho ben capito le ragioni che ragioni non sono del tuo errore… ma smettila di agitarti o finirai per agitare la gravità di tutto questo. Non credere sia solo tu quello in errore”.
“Ma cosa dice?? Come può fare tali affermazioni, mi scusi? Ma si rende conto di quel che è successo? Si rende conto che l’ho investita? IO HO INVESTITO LA SUA MACCHINA! IO!”.
“E credi che io non abbia fatto niente perché questo accadesse? Ti sbagli figlio mio. Ho sbagliato anch’io. Tu hai messo la tua velocità e la sua estasi nel tuo piatto della bilancia, io metto la mia incoscienza nel non aver dormito la notte prima di mettermi in marcia e quella di non essermi mai messo la cintura in vita mia. Come credi che stiano ora i piatti?”.
“Ma cosa importa? Sono io che ho colpito lei!”.
“E io mi son lasciato colpire da te portando le mie lacune in strada. Non vedi come ora risulta equa questa bilancia? Calma il tuo animo, ti prego, e fai l’unica cosa che ci è permessa fare ad entrambi: perdoniamoci. Assolviamoci almeno col cuore da questa fatalità che è stata opera di entrambi. Io, dal momento in cui l’incidente è stato compiuto, ti ho già perdonato”.


Il ragazzo scoppiò in un altro pianto e baciò la fronte ancora sanguinante del vecchio, poco dopo giunse l’ambulanza e i due vennero soccorsi secondo giusta azione civile. Il vecchio, poco prima di sparire sulla barella, mi guardò, sorrise, ma non disse niente: racchiuse tutto in quel che disse al giovane, che invece mi guardò, un ultima volta, e alla fine mi abbracciò di nuovo, dicendomi solo: “Grazie di tutto, fratello”.
Testimoniai tutto agli uomini del servizio civile e poi vidi quell’ambulanza allontanarsi, lasciandomi lì immobile per un’intera ora di elaborazione introspettiva. Un sorriso mi segnò poi il volto: acquisendo le generalità del vecchio, presi appunto di un suo numero di telefono e del suo indirizzo di casa; giuro che quando tornerò, chiamerò quel numero per avere sue notizie.
Scriverti questo episodio mi sfianca e mi costringe qui a terminare. Esaudisci il mio desiderio e vieni a me con le tue gioiose parole, medica le ferite e fammi ripartire, io che, in una prossima lettera, avrò fatto la mia scelta per abbandonar il cemento e appoggiar il piede sulla terra battuta.

Ti adoro,
La tua serenità

 

Quarta lettera
Storie


Cara abitante del mio cuore,
appoggia la mano tua su questa magica valvola che muove ingranaggi e pulsazioni, l’empirico motore che disegna pensieri e li proietta in orbita. Riesci a sentire come vibra e si scatena? Poggiasti, così ti pregai, la tua gioia sul mio corpo offeso e riuscisti a estirpare la pesante malinconia che era in me, come violaceo veleno vorace. Mi salvasti e non riposi sorpresa in esso; ti ringraziai baciando la terra e i suoi germogli, poi ripartii.


Ho ceduto tutto ciò che sapevo sul cemento e le sue meccaniche, gettai a terra quel che accumulai di esso e lasciai l’essenziale dentro lo zaino. Dal solido e muto grigio, striato di bianco, tesi la mano verso brune sfumature polverose, vive quanto il verde che di tanto in tanto faceva capolino lungo il sentiero battuto. Quel momento di strada fu credo il più silenzioso e singolare di tutti: ogni passo affondato era una dose di serenità finemente distillata, le impressioni avute per essa furono dedicate all’allegra sporcizia di terra nuda e pozzanghere, le or quieti e or vivaci tinte della flora incerta d’Agosto; le soste in zone di campagna, nei pressi di ville appartate dove nordici signori vivevano la loro vacanza estiva e ogni tanto pregavano di condividere il loro soggiorno. Cominciai a intrecciare i messaggi lasciati lungo il percorso con le storie rapite da uomini e donne conosciuti lungo il cammino, tutto si sviluppava in un’interessante miscela metamorfica di felicità, euforia, incertezze, paure, tristezze e voglie di riscatto… Tra le tante storie ascoltate, voglio riportarti quella di tre ragazzi incontrati lungo un tratto di statale che conduceva verso una piccola cittadina. Erano due ragazze e un ragazzo, sulla ventina le ragazze e sui venticinque il ragazzo, individui dalla stanchezza celata e dal sorriso a volte forzato, a volte disteso e sincero; erano autostoppisti, condividevano con me la natura dei loro spostamenti e sembravano, più che realmente in fuga, in cerca di questa. Le loro storie si comportarono come la loro stanchezza, appresi molto dai loro gesti e dai loro discorsi, votati a etiche perdute e sogni di libertà per avere un posto in questo mondo. Un giorno, mentre riuscimmo a convincere un tizio col pickup a “scarrozzarci” (come dicevano sempre loro) fino in città, i tre intrapresero una discussione diversa con me.


“Tu hai scelto di fuggire per amore. Fuggire lontano dalla tua amata, la tua sposa”, osservava il ragazzo pensieroso e dipinto di un sorriso passivo e lontano. Le due ragazze si fecero più vicine.
“Ma... perché mai? Che senso ha amare se poi ti allontani da lei?”. Tenevano le mani giunte al petto, istintivamente rannicchiate.
Parlai di te col sorriso, delle mie ragioni, di ciò che mi lega profondamente a te, terminai di raccontarti e dissi poi: “Che senso ha amare se prima non si concede amore per la propria persona? Quali conoscenze si pensa di avere altrimenti dell’amore che ci viene donato? Pensate davvero che ‘amore’ sia quell’impeto in cui il più forte tra i due affronta la tempesta lasciando al riparo il più debole?”.
“Vi siete persi prima ancora di camminarvi a fianco. Nei giorni di tempesta e di guerra, quando il momento di difendersi sarà propizio, non separate il debole dal forte e impugnate la lancia in una mano e la mano dell’amato nell’altra”.
Il ragazzo si portò una mano sul volto e sospirò a lungo guardando il cielo con aria stravolta, le due ragazze si guardarono, guardarono me, mi sorrisero… poi si tennero per mano, arretrando verso la posizione di prima.
Non so bene cosa accadde; recitare quelle parole con così tanto fervore... ...Avevo e ho ancora la sensazione di aver camminato nel giusto, anche se non è completo il cammino... non so. Non so davvero mia cara.


La frenata, poi un colpo sul vetro e una voce buttata al vento, svegliarono noi quattro figure dal sonno che ci separava dalla città. Ci congedammo con una promessa di rivederci, promisi loro di presentarti in una prossima occasione e, credimi cara, troverai stimolante far la loro conoscenza.
Della città in sé credo ci sia poco da dirti, sebbene sia stata una tappa sul mio cammino, resta pur sempre una complessa struttura adibita a meta o sosta, così che di quella sosta io ricordi solamente i suoi abitanti nel loro insieme: un insieme di diverse etnie e conoscenze che si mescolavano a un senso civile, un insieme che mi fece sussurrare una piccola frase: “Voglio essere cittadino del mondo”. Quel che ora importa, mio amore, è dirti che questa più breve lettera termina qui, stavolta devo cedere la foga di scrivere alla pesantezza accumulata: anche un bravo viandante finisce per aver male ai piedi!
Mi aspetta un treno merci un po’ più in là, mi porterà forse più lontano ma di sicuro sarà veloce nel fare il suo dovere; non avrò paura o dolore nell’affrontarlo.

Ti sono vicino, presente in ogni tuo momento,
Il tuo abitante.

 

Quinta lettera (epilogo)
Meta

Cara mia viandante che ristori l’anima al tuo passare,
questa che vado scrivendoti è l’ultima lettera che riceverai; sarà credo la più corta che, per consapevolezza e responsabilità, scriverò a te.
La mia mano tremerà a scriverti tutto questo, quindi perdona le mie lacune e la mia penna scossa su questa risma provata.
Il treno merci menzionato, fu custode di un piccolo universo abbagliante, vagone su rotaie destinate a portarmi dove volevo. In quel grande scomparto pieno di casse e coperte polverose, vissi due giorni e due notti osservando come le luci donassero diverse tonalità all’ambiente invecchiato. Non ero solo: c’era una donna con me, età indefinibile, avvolta da un velo di tessuto e incolumità. Non sembrava fosse interessata a parlare, mi guardava ma non lasciava indizi su sentimenti e reazioni; io la scansavo con insensati movimenti di paura e ritrazione, lei non si avvedeva di me e mi lasciava riposare. Fuori il paesaggio si trasformava con irruenza e violenza cromatica; le soste programmate dal treno erano sempre una buona occasione per ascoltare dialetti e modi di fare differenti, a volte restavo nascosto, a volte mi rendevo visibile e scambiavo aneddoti e racconti; la donna diventava come un fantasma durante quei momenti.
Un giorno misi da parte l’idiozia che era in me e mi avvicinai a lei.
“Sei come un giovane pettirosso pronto a scansar la spina che ti annunzierà”, disse lei all’improvviso, spiazzandomi, facendomi ricadere con sordo tonfo. “Come dice scusi?”.
“Non darmi del lei!”.


Per la prima volta, mostrò una smorfia. Disappunto. Ora compassione. “Abbi cura del tuo corpo mio giovane viandante, perché ora che hai affrontato me, affronterai la tua meta”.
“Di cosa parli?”.
“Il tuo volto mostra le parti più belle del tuo sorriso e il tuo sorriso vuole prendere il volo assieme alla prossima brezza”. Non seppi rispondere. La donna alzò un braccio, puntò il dito verso un disegno di vallate e foreste e schiuse un ultimo verbo.
“Corri giovane fuggiasco. Là dove la strada si interrompe e poi muore”. Fui rapito da quella visione, da quelle fuggenti parole che mi assediarono con spaventosa naturalezza. Bolide teatro che tutto ridusse nuovamente a un flash. La donna smise di puntare il dito e aprì la mano per carezzarmi il volto e la testa, la sua mano incontrò le mie labbra, le mie gambe incontrarono l’adrenalina. In piedi, lo zaino afferrato, gli occhi che incontrarono un’ultima volta quel volto velato ora svelato in un calmo sorriso di compiutezza. Rincorsa. Salto. Fuori da qui.
Rotolai per un minuto buono sull’erba prima di frenar la mia corsa sotto un cielo indescrivibile. Avevo lividi un po’ ovunque ma andava tutto bene. La vegetazione aveva una composizione naturale come già pensata, appositamente designata per guidare chi vi anelasse mai a esplorarne i meandri. “Senza meta”, mi dissi e ripresi la marcia.


Ora devo dirti, mia piccola donna, che siam presto arrivati alle ultime parole che ti scriverò. Ultimi versi e righe dedicate al mio sorriso proiettato nel cielo assieme alla brezza: là dove la strada si interrompe e poi muore. Quel che vidi fu qualcosa di inenarrabile, qualcosa che mi portò vicino alla comprensione dei sentimenti e degli stati provati dal famoso viandante sul mar di nebbia. Non c’era nebbia intorno a me ma uno sconfinato vuoto espresso in assenze e dolci dissolvenze di luci e ombre. Mi sedetti per terra, piansi come mai feci prima d’ora, mi risvegliai dallo stato di malinconia e convertii quella smorfia di dolore in sintomi di pace interiore.
Dentro il vuoto trovai il pieno.
La mia meta ora è raggiunta, l’anima ritrovata, la frase ora è compiuta. Là dove il piede dell’uomo lascia un’impronta, costruita o non avveduta, una strada si forma dietro il suo passare.

Dolce mio amore, che sempre mi hai aspettato e che sempre so mi aspetterai con inattaccabile fede,
porto a te il mio grande dono, la mia verità che smuoverà il tuo cuore.

L’amore è un dolce spasimo che cammina su due strade indipendenti, se i loro viandanti amano e saranno amati, viaggeranno paralleli, tenendosi per mano.

Fai buona strada amore mio,
Il tuo viandante.

P.S. Se vuoi cominciare adesso il tuo nuovo viaggio, apri la porta di casa e vieni ad abbracciarmi.

 

 

Ringrazio mio padre, mia madre, gli amici che difendono la mia strada, ringrazio Simona ed Erika e ringrazio infine due gruppi musicali: gli Agricantus e The XX.


 

Andrea Giannino