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Briciole di pane

Cultura: "Racconti on the road", on line "México, diario di viaggio" di Claudia Crabuzza

Ogni settimana un racconto del primo certame letterario dell'Anas

MÉXICO, DIARIO DI VIAGGIO

 

5 NOVEMBRE. MÉXICO, DISTRITO FEDERAL
Di certo non mi aspettavo un sole splendente, cielo azzurro limpido, di quella limpidezza messicana che non assomiglia a nessun’altra. Ho avuto fortuna. Oggi è festa e non c’è molto traffico. E non mi aspettavo di girare in metro così tranquillamente, unica straniera nel serpente a nove code che striscia sotto la città. A darmi la bienvenida c’è Pablo Romo, assistente di Samuel Ruíz, il vescovo di San Cristóbal de Las Casas, in Chiapas, che si è dedicato per anni ai diritti degli indios, lavorando in stretto contatto con il movimento zapatista.
La Santa Sede ha tentato in tutti i modi di fermarlo, ma lui continua, ancora adesso.
Pablo è nato qui nel Distrito Federal, cioè Città del Messico, e dice che la prima cosa che ha imparato da bambino è stata attraversare la strada senza farsi ammazzare. Pablo mi racconta le storie di questa città e non smette di stupirsi per quanto sia tutto così surreale qui. Ma io non credo che lui se ne renda conto del tutto. Credo che sia molto più surreale di quanto qualunque messicano possa pensare. Forse questa è l’unica definizione buona per questa città. È surreale, come il resto del Messico, come il resto dell’America, quella vera, quella che chiamiamo Latina. Probabilmente García Márquez ha conquistato il Nobel così, raccontando come nessun altro il reale e il meraviglioso di questa incredibile terra. Pablo mi spiega anche una cosa fondamentale: la tequila si beve solo con “su sangrita”, succo di pomodoro con lime e chile che prepara le papille gustative e lo stomaco al fuoco dell’antica bevanda. Questo per quanto riguarda l’aperitivo. Per il digestivo forse c’è un altro modo, ma è meglio provarlo domani.

 

 

I vestiti di Frida, il suo letto le sue piante. I suoi libri dentro le vetrine e i ritratti dei personaggi amati sulle pareti. Le sue parole di dolore accecante per quell’uomo così bello così grande, da volere nonostante tutto. La casa che ha visto quei due corpi amanti, tanto diversi, lontani e indissolubilmente legati.
La storia più romantica. E la forza e la bellezza di una donna spezzata, senza la gioia di un figlio che avesse i suoi occhi e quelli di lui insieme. Frida scrive che l’indirizzo della casa è Avenida Engaño numero 1, rovina, casa per uccelli, nido per amore, tutto per niente. Amore e dolore immensi.

Questa città ti attrae in un vortice di possibili strade, di fermate di metro, di suoni e bancarelle, ti brucia gli occhi di fumo di vecchi maggiolini Volkswagen e di infinite bellezze, opere d’arte, collezioni, monumenti, musei, di giardini e patii inaspettati. Domani sarò ancora qui a cercare nuovi colori e nuovi mondi tra i palazzi e le baracche e i ponti in costruzione e vergini di Guadalupe e sorrisi del venditore di fiori e insalate di aguacate con Daniel che ha gli occhiali rotondi di Gandhi. Non c’è motivo per non farsi bruciare gli occhi e la gola dalle strade di questa città. Trattengo il fiato in attesa di altre sorprese, di gentilezza e bellezza in quella che dovrebbe essere una delle megalopoli più violente del mondo, e che non riesce a essere triste, o non lo dà a vedere. O forse sono io che ora non ho voglia di vedere miserie e ingiusta fame e gli effetti di trattati di libero commercio che incatenano e non liberano per niente. Approfitto di questo momentaneo stato di deliberata incoscienza per godermi con allegria il DF e un taco profumato al prossimo angolo di strada.

 

 

17 NOVEMBRE. TAXCO, GUERRERO
Conosco un Messico diverso, metropolitano, vivo, diverso da quello chiapaneco o yucateco che conoscevo. Anche più ricco e più occidentale, di certo. Mi faccio un’idea nuova di questa terra e credo che sia molto di più e molto meglio di quello che pensassi. È come aver avuto un’intuizione geniale. Venire qui la prima volta senza sapere perché e restare incantata e scoprire che non finisce mai, che ci sono paesaggi di ogni tipo e mondi incastrati e parole e gesti e tratti che non ti aspetti. E velocità differenti e non c’è niente di scontato. Niente di normale. Per quello che può essere la normalità. Non so, sedersi a mangiare in un piccolo comedor del mercato, e dividere il tavolo stretto con una signora, lei ha comprato una busta di nopal, che è la pala del fico d’India e vuole che lo assaggi, è bollito e condito e lei dice che bisogna provarlo. O magari camminare in una strada dove si vendono solo impianti e strumenti musicali, e ogni negozio mette la sua musica al massimo e le voci dai microfoni ti invitano a entrare, e non capisci più niente. O finire nella strada dei succhi di frutta o nella strada delle sedie a rotelle. E all’improvviso grattacieli di vetro con omini appesi fuori a lavarli poco a poco, e a fianco case a due piani, di ogni colore, scritte, pubblicità, programmi della serata dipinti sui muri, il negozio che in vetrina mette i vestiti per la festa e un cartello: «Si vende formaggio di Oaxaca». È la pazzia della città, universo tra paesi e montagne, laghi e vulcani e vivai di fiori. Ogni tanto fa bene uscirne, chi può lo fa, io e Julián possiamo, mi porta a Taxco, la città dell’argento, per il fine settimana. A Taxco troviamo aria pulita e vecchi amici della Isla, e come allora Chucho suona la tastiera in un bar e Julián prende la chitarra e io canto, le stesse canzoni che facevamo al México Lindo e che ancora non abbiamo imparato. E manca solo Nadia. È impossibile stare dietro allo slang di Chucho, fabbrica di parole e detti che non esistono, lui e Alex insieme inscenano un continuo spettacolo di gesti e storie inventate che quando arriva la sera sono troppo stanca e resto lì ad ascoltare suoni senza più capirli. Rinuncio anche a orientarmi in questa città. Taxco è aggrappata a una montagna, le strade si inseguono senza un senso preciso, si intrecciano come un labirinto, strette e tutte a doppio senso. Si va avanti e indietro quando si incontra un’altra macchina. Continuamente. E mi perdo la direzione ogni momento. Taxco è bella da perdersi, è bella in ogni angolo, ogni esquina, ogni balcone. Si perdono gli occhi a seguire tanta esposizione di argento e bellezza. E mi viene da pensare che questo è un altro posto pericoloso, di quelli che ti intrappolano e non ti lasciano andare. Si dice che chi mangia gli insetti della festa non se ne va più. Io non li ho mangiati. Non si presentavano molto bene, sono cimici scure, vive, da schiacciare in una salsa di chile e limone. Per ora rimando. Così non rischio di fermarmi qui per sempre. Meglio non sfidare i detti antichi. E torno a México, la città. Da lì non riesco ad andare via, per davvero.

 

 

23 NOVEMBRE. PLAYA PARAÍSO, GUERRERO
Allora vado a Paraíso. Playa Paraíso Escondido, sulla costa del Pacifico, a nord di Acapulco. Alla stazione sud di México non ci sono più i bus di una volta. Quelli gialli con i vetri neri o con i vetri rotti o disegnati a colori, con “Gesù cristi” e vergini di guadalupe appesi ovunque, scialli di pizzo nero e tende di velluto rosso con drappo. Non ci sono più. Ora solo grigi autobus lusso o extra lusso aria molto condizionata e prezzo molto alto per me. Comunque vado. Direzione Acapulco e da lì un paio d’ore per il paradiso. Il mio amico canadese dice che in questo viaggio avrò molte ore da passare in bus. E quindi mi regala musica da portare in tasca, mille canzoni dentro una scatoletta da sfiorare. Ascolto Michael Franti che dice che ognuno merita musica «Music, sweet music», e Los Fabulosos Cadillacs e Manu Chao e filmo la città dal finestrino. A fianco a me una coppia, sembrano italiani. Ma parlano spagnolo. Allora forse lui è italiano. Lui è molto italiano. I sandaletti tecnologici da trekking, l’orologio anche tecnologico giallo e nero e i jeans col risvolto e gli occhialetti in tartaruga. Italianissimo. E magari lei è argentina. Quien sabe. Intanto arriva il giorno e finisce la città. Arriva la campagna con la nebbia e sullo sfondo il vulcano Popocatépetl con la sua compagna addormentata a fianco. E i piccoli paesi e i cimiteri sotto gli alberi e macchie rosse di rose in pacchetti da dieci pesos sui bordi della strada. E quello che non filmo lo scrivo, e quello che non scrivo finisce in qualche posto intorno al cuore e si conserva per un po’ o se ne va o riappare all’improvviso quando cammino per la mia città. Andiamo verso il caldo, ma qui sul bus fa sempre più freddo. Ho scoperto qualcosa sulla coppia a fianco, lei è argentina e lui è spagnolo, ma ha vissuto tre anni in Italia, ecco dove ha preso lo stile. A México la notte è fredda in questa temporada. Andiamo verso notti calde e giorni caldissimi. Come piace a me.


Ho messo i piedi nel Pacifico. Per la prima volta. È un’esperienza. Il Pacifico è diverso. Tiene otra onda, dice il mio amico messicano, e vuol dire che ha un’altra energia. Rispetto al Caribe, di certo. È poderoso. È violento. Ti inganna con piccole onde che hanno forza inaspettata, ti prende e certe volte non ti riporta indietro. È come un dio antico, ha bisogno di sacrifici per placarsi, si prende chi vuole. Soprattutto chi lo sfida. Io chiedo il permesso per qualche piccolo giro vicino a riva. L’acqua si fa subito alta e la corrente è già fortissima, ma mi metto d’accordo. Di certo vale la pena. La schiuma è bianca e dura un tempo lungo, la puoi prendere in mano, e l’acqua è calda da non crederci. La mattina molto presto, c’è il sole là in fondo che sta sorgendo e la sabbia è fredda, cammino sino al bagnasciuga. Dove inizia la linea scura di sabbia bagnata, là comincia il tepore. Come può essere così? Come fa a scaldarsi tanta acqua, tanto mare? Non lo so. Ma è un piacere. Ed è così tutto il giorno. E la tenda è a pochi metri, sotto un tetto di palme, e torno spesso a chiedere permesso per un piccolo bagno. I pescatori portano a casa il pesce che rimane attaccato alle lenze, stanno a riva, l’acqua che tocca i fianchi, se arriva un’onda più alta mettono la testa sotto la schiuma e la lasciano passare. Ragazzini trascinano pesci lunghi e grandi, da mangiarci tutta una famiglia. Mi piace questo mare. È vivo e pretende rispetto. E Acapulco che gli sputa in faccia palazzi di trenta piani. Lui si prende le sue rivincite.
E resiste all’invasione con un po’ di rabbia. Mi piace. E mi ricorda La Speranza nei giorni di vento e mia nonna che grida di uscire dall’acqua ché le onde si son fatte troppo forti.

 

 

29 NOVEMBRE. REAL DE CATORCE, SAN LUIS POTOSÍ
Ho ripreso il mio viaggio, dopo la lunga fermata nella città. Cultura regalata e musei, risate e giri in pesero e qualche volta in taxi e cene lussuose da trenta pesos, che ya ce le meritavamo, film messicani e mal di pancia. Me ne vado por fin. Voglio infilarmi nel tunnel di Real de Catorce, la città fantasma, voglio vedere la polvere del deserto e il caldo di giorno e il gelo della notte. Chissà com’è dopo questa iniezione di Messico global, strade grandi e luci e vestiti alla moda. Ho poco tempo per stare al nord, sempre poco tempo. Ci vorrebbero anni. Per togliermi la voglia che ho. Che alla fine possa tornare alla mia isola con pace. Quizás? Per ora riparto dal nord. E sola. Tanti amici fino a ora. Mi piaceva. Ma mi piace anche camminare col silenzio in bocca. Magari con la musica. O anche no, puro silenzio. Ascoltare. E pensare. Poi dopo qualche giorno parli a voce alta e ti rispondi. È un buon riposo, dalle risposte che normalmente devi dare, dalle telefonate, dalle spiegazioni, dagli orari. Questo mi serve. Sto a San Luis Potosí per due giorni. Per lo meno adesso so che c’è un posto qui che non mi piace. Non mi piace proprio, e invece me la immaginavo bella e ricca di storia. È una sensazione sottile, è come se la città avesse una brutta energia. O forse sono solo un po’ triste per il cambio, gli amici lasciati e la vita roboante della città del Messico che provoca assuefazione. Resto solo il tempo di raccogliere un po’ di informazioni su Real, dove voglio andare, e un artigiano mi dice che è un posto orrendo, che non c’è più nessuna magia, che tutti cercano di fregarti. Mi sembra così strano. Real è la porta del deserto, ed è circondata dalla montagna sacra.

Ogni anno gli indios Huicholes si spostano dal nord dello stato di Jalisco per andare a raccogliere il Peyote nel deserto di Real, è la pianta sacra che usano per le cerimonie di tutto l’anno. Mi sembra strano che non ci sia niente di buono in un posto così. E quindi parto. Sulla strada l’orizzonte si fa sempre più secco, non ci sono alberi, se non palme del deserto e cactus, un’infinità di cactus, belli, pieni di vita, e i maguey, con il fusto alto e dritto. Arrivo quando è già notte davanti all’entrata del tunnel. Il famoso tunnel di due chilometri che attraversa la montagna e porta a Real. Arrivo con Sabina, che mi ha caricato a una gasolinera, una ragazza italiana che vive qui, con i suoi tre figli messicani. La prima volta che passi il tunnel è un’avventura. Sembra un film, non finisce mai la strada scavata nella pietra, coi lampioncini antichi, da miniera. Si passa a turno, due uomini all’estremità si telefonano per sapere se il passo è libero. Di notte già non ci sono, devi solo sperare di non incontrare nessuno, o ti fai il tunnel a retromarcia almeno per un pezzo. La mia prima traversata è un po’ triste, accompagno Sabina a trovare una famiglia di svizzeri che vivono qui, è morto il loro figlio più piccolo. Qui si fermano molti europei e nordamericani, arrivano da turisti e si sposano e fanno figli e non se ne vanno più. Nella hacienda della famiglia c’è un fuoco per Aramis, e tutti stiamo intorno, beviamo caffè e parliamo sottovoce. È una specie di cerimonia che gli amici fanno per accompagnarlo nel viaggio. La notte non si ferma. La luna è in forma smagliante e il Grande Carro la segue a pochi passi, con milioni di piccole luci intorno. Aramis è morto e il cielo continua a muoversi sulle nostre teste. Continua a luccicare, continuano ad abbaiare i cani lontano e i coyote sulla montagna. Tutto continua, niente si ferma, questo è il gioco a cui partecipiamo. Basterebbe ricordarsene. E ricordarsi che c’è sempre un senso per le cose. Qualunque cosa. Il tempo non c’entra molto. C’entra lo spirito, il grande spirito del vento, della luna e degli alberi, della terra sotto i piedi, di ogni persona, di ogni gatto, dei coyote e dei serpenti, lo spirito del sole che è quello che ce l’ha più bello di tutti. È tutto uguale. Chissà dove se ne va il pezzettino di Aramis, chissà chi se lo prende. Basterebbe ricordarsi di questo, basterebbe crederci davvero. Oggi è domenica. Real è silenziosa, callada. C’è il funerale e i negozi son chiusi, non ci sono tappeti di artigiani per strada, non si vedono cavalli per le strade di pietra, non ci sono bambini sulle altalene. Tutto il paese va a seppellire il bimbo. Lo lasciano lassù, nel cimitero antico che guarda alla valle. Alle spalle delle tombe di tufo la montagna che protegge dal vento e a fare ombra una palma che da sola riempie l’orizzonte. A ogni modo, è un buon posto dove riposare per l’eternità. E qui il cielo, come dice Rino, «è sempre più blu».

 

 

11 DICEMBRE. DAL DESERTO, SAN LUIS POTOSÍ
Se cercavo polvere e strade senza asfalto e spine, le ho trovate. A San Antonio o al Ranchito, a Wadley o a Estación Catorce, è di polvere il paesaggio. Non c’è confine tra questi pueblitos e il deserto. È polvere nell’aria e sulla strada, sui pantaloni e sui capelli. Non provano neanche a combatterla. È solo che la vita ha un altro colore. E poi cercavo gente senza fretta. Eccola. Il concetto del tempo qui è un altro. Si va a piedi o magari con un passaggio di qualcuno del posto, su un camion di pannocchie, appesi a qualche furgone, ma passa anche un’ora senza l’ombra di un motore. E le strade sono di pietra e di terra e così anche i motori vanno molto piano. Dev’essere la polvere che si mette anche tra gli ingranaggi degli orologi e li rallenta. Mi fermo qualche giorno a casa di don Julián y doña Flor per fare il temazcal. Il temazcal è una sauna antica, tramandata dagli indios da tempi lontani. Si sta in circolo dentro una capanna fatta di legno e di coperte e si portano al centro le pietre arroventate dal fuoco. L’acqua fredda e le erbe sulle pietre fanno vapore e profumo di deserto. È una purificazione molto profonda perché si chiede l’appoggio degli elementi della Terra, le pietre antiche, l’acqua pura della montagna, le erbe e il fuoco che riscalda la vita. Il temazcal rappresenta il ventre materno che protegge e nutre e riscalda, è una nuova nascita.
 


Lázaro vive qui da qualche mese, si sta rimettendo a posto la vita. Mi invita a una camminata nel deserto, e mi accorgo che ha un senso del tempo da deserto, mi fa camminare per almeno sette ore e poche volte nei sentieri, andiamo quasi sempre tra i cespugli e i cactus, le spine giganti che almeno le vedi e te le puoi staccare, e quelle invisibili del nopal che a sera mi coprono le gambe. E poi le piccole palle di spine che aspettano che le calpesti e si incamminano sulle scarpe e non riesci a scacciarle, neanche fossero vive. Mi arrabbio un po’ con Lázaro, perché non ha misurato il cammino, perché si è perso, perché non doveva farmi fare tanto. E lui mi chiede scusa e comunque dice che mi accorgerò che non è stato inutile.
La notte nel deserto arriva presto ed è molto fredda. Ma quando esco dalla tenda ho la luna sulla testa ed è di nuovo come un sorriso e il deserto e i cespugli sono bianchi, illuminati come se fosse una festa. La camminata è stata molto dura, quando l’indomani ritroviamo una strada asfaltata mi sembra quasi bella. Ma Lázaro aveva ragione. Mi accorgo già dell’effetto che mi ha fatto. Oggi, per tornare a Real, non mi fa paura mettermi lo zaino pesante sulle spalle, e cammino per almeno un’ora sotto il sole intanto che aspetto un passaggio che prima o poi arriverà. E poi un’altra ora e sino all’altro giorno non avrei mai pensato di farcela. Ora cammino e mi sembra niente in confronto al giorno nel deserto. Ho scoperto che posso fare molto di più di quanto credessi. La verità è che questo posto, la montagna e il deserto, la sua pianta magica e la gente di qui, ti insegnano tante cose che non le dimentichi più. Se glielo lasci fare. E se hai rispetto. Non capisco il turismo ignorante che arriva qui sperando di avere allucinazioni gratis, con la sua mancanza di cultura, di rispetto di tradizioni antiche e di tanta energia che poi se non la tratti bene ti fa pagare tutto. Certo bisognerebbe conoscere le migrazioni dei Huicholes o le cerimonie degli indiani del nord, bisognerebbe conoscere le loro preghiere e la forza che generano. Ma non si spiega con poche parole, è una cosa che si deve sentire. E allora capisci tutto.

 

 

23 NOVEMBRE. PUERTO ANGEL, OAXACA
Scrivo dal mare, finalmente. Ho passato giorni tra il deserto e Real de Catorce. Giorni di caldo che ti asciuga la pelle e ti aggroviglia la testa, notti fredde da non dormire, alle porte del deserto e ai 2800 metri di altitudine di Real. Ho conosciuto gente speciale e ho visto stelle cadenti che cadono ballando. Ho parlato con veri discendenti della nazione Chichimeca e ho scoperto molte cose di questo popolo che pensavo fosse solo uno dei tanti scomparsi nella storia. Che era una cultura basata sull’arte, sulla musica, sulla poesia, che adoravano il Sole e la Terra, che combatterono sino alla fine per non lasciarsi conquistare, diedero guerra agli spagnoli più di chiunque altro. A San Luís de la Paz i chichimeca ci sono ancora e festeggiano l’anno nuovo secondo il calendario preispanico, e il 24 luglio è Capodanno.


Ho scoperto che i suoni della notte che Alessandro ha inventato con il suo flauto traverso per la canzone di Ramona, sono esattamente gli stessi che si ascoltano nelle musica tramandata dai chichimeca. E poi ho sentito il senso di colpa di uno spagnolo nelle miniere di Real, e il perdono che i nativi stanno ancora elaborando nei confronti di un continente, il nostro, e nei confronti dell’uomo bianco; nonostante l’effetto della cosiddetta conquista sia ancora così duro, così presente; nonostante l’uomo bianco non abbia mai smesso, in questi 500 anni, di approfittare e saccheggiare e, la vera beffa, di sentirsi il più civile e il più degno di rispetto. E ho dormito in un tipì indiano con il fuoco e le storie di chi lotta da anni per mantenerlo vivo. Ho camminato dietro a una treccia bianca e nera e sono stata ferma quando il tempo si è fermato. Ho fatto l’attrice in un film di banditi, vestita da elegante signora dell’800. Ho visto sulla strada di Potosí le famiglie più povere vendere serpenti e aquile al guinzaglio, cactus e pelli di vipera, il fuoco acceso per non gelare e stracci di plastica a coprire la mercanzia. E poi ho viaggiato un giorno intero per arrivare al mare, e anche sulla spiaggia animali in vendita, tartarughe, scimmie serpenti e conchiglie, vivi o morti, sacrificati per la miseria di tanta gente, pochi pesos e la paura che arrivi la polizia a sequestrare tutto. La povertà non è solo in Chiapas. Quella l’avevo vista già. Immondizia bruciata nelle campagne o buttata dentro i canyon, nessuno passa a raccoglierla, nessuno insegna alla gente che cosa farne. Ho imparato che non è più ora di lamentarsi, non c’è ideologia o lotta di classe o canzoni di protesta. È più urgente lavorare. Usare le mani, lavorare, magari mettendo le finestre e il pavimento a una casa, magari lavando i piatti, magari cantando e scrivendo canzoni per raccontare storie. Ho imparato che bisogna mettere le mani e il cuore, che non si lavora senza amore, senza attenzione, qualunque lavoro sia.

 

Sono arrivata a Zipolite, sul Pacifico e ho conosciuto persone che lavorano così, insegnando alle madri di 15 anni a nutrire i loro figli, perché non soffrano conseguenze come l’epilessia o alterazioni muscolari e scheletriche, e portando i bambini al mare, rendendoli vivi nonostante tutto, degni di esistere, coscienti del loro valore, delle capacità e dell’indipendenza che possono raggiungere. Il centro si chiama “Piña Palmera” e vive grazie all’aiuto della gente e al lavoro di volontari che passano qui almeno sei mesi. Qualcuno si ferma un anno, qualcuno gli ha dedicato tutta la vita. È un lavoro molto duro, ogni giorno arrivano bambini da tutto lo stato di Oaxaca, il passaparola funziona. L’unico motivo buono per continuare a farlo, perché Pilar di Malaga decida di lasciare il suo posto fisso in ospedale per venire qui a lavorare gratis è l’amore puro e disinteressato per il suo lavoro e per questa gente. È bello vedere tanta attività a pochi metri da una spiaggia famosa per il relax e il consumo industriale di erba. Diciamo che i volontari di Piña Palmera regalano alla meravigliosa playa di Zipolite un valore in più. E ora me ne vado al mare, un po’ di vacanza vera, da turista, non mi farà male, balcone sulla baia di Puerto Angel, in barca a vedere i delfini e colazione con pescado frito e camarones, e musica della mia macchinetta magica da mille canzoni, e piedi nell’acqua del Pacifico, che si è fatta un po’ più fredda perché ora è inverno, ma non molto. Sempre con attenzione, l’oceano è molto forte, molto vivo. Ed è una bellezza da non crederci. Passo qui gli ultimi giorni dell’anno, anche qui è Natale anche se suona molto diverso. Qui è leggero.
Feliz Navidad a todos.

 

 

PRIMO GENNAIO. SAN CRISTÓBAL DE LAS CASAS, CHIAPAS
Sulla strada per San Cristóbal. La prima volta è stato cinque anni fa con la mia Nadia e non sapevamo niente e non capivamo perché i militari controllavano ogni autobus, il nostro quattro volte in una notte, e perché le file infinite di carri dell’esercito nella periferia della città. Poi Armando mi raccontò del primo di gennaio del 1994, quando la città si svegliò in un mattino diverso. L’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale aveva occupato il municipio e dichiarato guerra al governo. Gli indigeni di etnie di tutto il Chiapas si stavano ribellando al tentativo del potere di cancellare la memoria e la realtà di milioni di persone di tutto il Messico, quelle che stavano qui da molto prima di Colombo e che son riuscite a sopravvivere sino ad ora. Si stava sviluppando una nuova coscienza, il diritto di vivere in pace, come cantava Victor Jara, nelle terre abitate da sempre, il diritto di mantenere i modelli di vita tradizionali, di conservare le lingue antiche, di poterle usare nelle scuole, ma soprattutto il diritto di avere cibo e salute e di avere una casa, e giustizia e democrazia, ma quella vera, di poter esistere con dignità. Erano più i bastoni e i machete delle armi, e il governo rispose con violenza e San Cristóbal e le altre città occupate dagli zapatisti a Capodanno vissero giorni di guerra, bombe dal cielo, elicotteri, e morti per le strade, e Armando ha continuato a sognarli per molto tempo. Questa volta arrivo da sud. Ho ai piedi ancora la sabbia scura di Boca del Cielo.

 

Stamattina ho salutato il Pacifico da questa spiaggia stretta tra il sale dell’oceano e l’acqua dolce della laguna. Arrivo di giorno, questa volta, lavoro a un nuovo maglione blu e guardo fuori dal finestrino. Inizia la montagna chapaneca, il verde degli alberi e il rosso della terra. Tra poco inizierà il freddo e un po’ di nostalgia per il mare tiepido e la gente allegra della costa. Ora ho una macchina fotografica, la prima, e mi appassiono e soprattutto mi piacciono le stoffe e la frutta, i tetti intrecciati delle palapas e le facciate colorate delle case di città, mi piacciono anche i cani vecchi e gli uccelli in technicolor di qui. E il fuoco. Passo l’ultima notte dell’anno ballando, La Carlota suona reggae e rocksteady e Los Fabulosos Cadillacs, El Matador per salutare e Mal Bicho per me che l’ho richiesta. Non c’è molta festa nel zócalo di San Cristóbal, sembra che tutti siano andati a festeggiare l’anniversario del levantamiento a Oventic, una delle “capitali” zapatiste. Anche io sono andata ed era molto bello, pieno di colori e costumi di ogni comunità e balli tradizionali e festa, la strada bloccata dagli autobus e dalle camionette cariche di gente con facce da tutto il mondo. Ma non mi sono fermata per la notte perché avevo freddo e voglia di un concerto da ballare per ore. E combatto un poquito per questo, perché non sono di nessuno e perché desideravo una serata così, perché c’è dolore e c’è paura, e paura inutile, c’è diffidenza, e allora c’è da offrire danze e canti che piacciono alla terra e al cielo, per dire grazie per ogni passo camminato, per ogni voce, per ogni doccia calda, per ogni colazione, pranzo, cena, e perché c’è da celebrare tutti quelli che continuano a resistere e tutti quelli che non ce l’hanno fatta, quelli che se li ha portati via il mare, su una spiaggia in Asia o sulle barche disperate nella costa di Italia o di Spagna, e per ringraziare le musiche belle e quelle che si attaccano in testa e ti svegli cantando. Io ballo molto e sono felice. Domani non so cosa farò ma sono felice. Mi prendo tutto quello che c’è e non mi voglio perdere niente.

 

 

10 GENNAIO. POLHÓ, CHIAPAS
Sono tornata a visitare il municipio autonomo di Polhó. C’ero stata quasi tre anni fa, convinta di andare ad aiutare e scoprendo invece di avere ricevuto molto di più di quanto ho dato. Ci sono nuovi murales e sembra tutto più curato, sembra che ci siano più sorrisi, ma forse è perché son felice di tornare qui. Ci sono sempre i ragazzi nel campo di basket, e come quando mi sedevo a guardarli, non litigano e non sono aggressivi, ed è bello sapere che qui si gioca solo per giocare. E poi c’è la “tienda cooperativa indigena zapatista” dove compravo pan dulce e mi sedevo a lavorare a maglia. Ora sono diventati velocissimi nel servizio, e quasi mi piaceva di più, quando dovevo restare ore davanti alla finestra senza vetri che dà sulla valle ad aspettare il mio tè di cannella. E la sera quando fa buio lo stesso rito che mi ricordavo. Televisione accesa nella tienda, il film che propone, Tv Azteca oggi, è Rambo, poteva andare meglio, ma tutti i bimbi stanno in fila davanti allo schermo, e i grandi anche, ed è divertente vedere le facce e le risate. Ho fatto qualche foto, ma non ho filmato, qui non si può. Per entrare a Polhó ho avuto il permesso dalla giunta di governo di Oventic. Dal 2003 esistono cinque giunte di buon governo, anche dette Caracoles, che rappresentano e governano tutte le comunità zapatiste.

Ascoltano le richieste di ognuno, raccolgono denunce e lamentele, funzionano come tribunali autonomi. Io ho fatto la fila e mi hanno ricevuto. Ho chiesto di poter tornare con la mia banda e suonare per la comunità e hanno detto che ci aspettano in qualunque momento decidiamo. Ho anche chiesto il permesso di filmare e fotografare e me l’hanno dato, ma senza riprendere gli adulti a volto scoperto. È una questione di sicurezza, gli zapatisti restano fuorilegge per il governo messicano. Ed è una forma di protesta simbolica, che sia sempre chiaro che dietro il passamontagna può esserci qualunque volto, un indigeno del Chiapas come una donna maltrattata di qualunque città del mondo. Perché nessuna lotta è più importante di un’altra, perché quando si difende un uomo si difendono tutti gli uomini. Perché siamo tutti barbari per qualcuno che non ci conosce, e questo è quello che dice anche il volto nascosto dietro lo scialle nero della donna chichimeca.

 

 

21 GENNAIO. RITORNO A CITTÀ DEL MESSICO
Inizia il ritorno. Riparto da San Cristóbal, rumbo al norte. Prima passo a Palenque per arrivare a Roberto Barrios, un’altra comunità zapatista. È in mezzo alla selva, strada di campagna che diventa sempre più difficile, c’è da attraversare un fiume appena prima di entrare nel Caracol, ma la camionetta non si spaventa, chiede permesso alla corrente e si butta tra i pesci d’acqua dolce. Il tempo cambia, in poche ore passo dall’inverno di San Cristóbal all’estate umida della selva, un’altra magia della terra messicana. Cambia anche il ritmo del tempo, di nuovo scorre lento mentre aspettiamo di essere ricevuti dalla giunta. Chiedo anche qui di poter fotografare e di venire un giorno a portare musica chichimeca. La giunta mi ringrazia per l’idea di offrire in regalo un concerto e io lascio un disco, così si possono preparare per quando verremo. A Roberto Barrios lo stesso fiume che abbiamo attraversato in macchina si trasforma in cascate di una bellezza unica, fatta di immense vasche verde chiaro e acqua tiepida. Scorrono pesci tra le mani e la corrente è pesante sulla pelle e ancora una volta ci insegna che non è un gioco, che è più forte di noi. Continua il viaggio verso il ritorno, finisce lo stato di Chiapas, poi Tabasco e Veracruz, il vento del porto e il cocco piccante da scavare con la cannuccia. Mi restano pochi giorni di viaggio ed è arrivato il momento di conoscere la culla della civiltà messicana, Teotihuacan. Mi accompagna una guida speciale, un messicano che ha dedicato la sua vita al riconoscimento e alla pratica della tradizione spirituale indigena americana. Non è una zona archeologica, secondo Alfonso, ma una terra sacra, ancora viva, in cui i suoi avi hanno costruito templi e piramidi al sole, la luna, l’acqua, la terra, al Grande Spirito della vita. Gli stessi progenitori che adoravano tutte le popolazioni antiche del Messico, gli stessi che oggi onorano gli indiani del Nord America. Alfonso dice che tutta la storia messicana è stata travisata, perché chi l’ha scritta, come sempre, è stato il vincitore, e perché un europeo poteva leggere quello che incontrava in America solo con la sua interpretazione.

 

Credo che sia ancora così, nonostante il tempo che è passato. La violenza e la perseveranza della conquista sono riuscite a penetrare sino alla coscienza stessa dei nativi, la cristianizzazione è stata tanto profonda che i primi a non riconoscere la propria tradizione sono i messicani di oggi. Invece non esistevano re, né imperatori, né schiavi, né guerrieri. Erano culture basate sulla pratica spirituale, popoli guidati da un líder spirituale, che gli spagnoli videro come re. Le piramidi erano un’offerta fatta da tutta la comunità, un sacrificio per ringraziare gli elementi che danno la vita e il benessere. Non c’era obbligazione, il concetto di offerta era parte integrante della coscienza di ogni individuo. Per questo Alfonso sostiene che se la storia ha descritto i suoi avi come guerrieri feroci, che praticavano sacrifici umani o addirittura cannibalismo, è stato per gettare fango su una civiltà degna di ogni rispetto, probabilmente più avanzata di quella europea del tempo, e per giustificarne il massacro infinito. La teoria di Alfonso non si basa su fonti ufficiali, ma solo sulla certezza del suo spirito, dello spirito che ancora oggi esiste e si può sentire molto chiaro.

 

Seduta sulla maestosa piramide del Sole o sulla piramide della Luna, che parla nella sua architettura della forza della donna, dei cicli lunari, delle fasi della marea, o camminando per la Calzada de los Muertos, dedicata agli avi di tutte le popolazioni che abitarono il sito di Teotihuacan, non sento la tensione della guerra, il sangue dei nemici sacrificati, e io so che sono vibrazioni che restano attaccate alle pietre, anche alle più antiche, so che io non posso entrare in certi paesi medievali d’Italia, che mi spaventa l’aria di morte violenta che li avvolge, e la sento. E qui no. Qui si sente il sole molto forte e l’aria fresca delle stanze dipinte di rosso e di verde, i simboli del cammino, del vento, l’aquila che si avvicina più di ogni altro animale al cielo. E poi, come dice Alfonso, non era molto pratico trascinare un prigioniero, recalcitrante magari, sino alla cima della piramide, per sacrificarlo lassù, come dicono gli studiosi, visto che gli scalini sono 208, quattro volte 52, e l’unico modo per affrontarli è salire in diagonale. In ogni caso questa tesi non vuole portare prove, è per chi sa sentire, non per chi vuole solo informarsi sui libri.

Domani sera prenderò il volo per Londra, poi Milano, poi casa. Non riesco a decidere se questi ottanta giorni messicani sono volati in un momento o sono durati un anno.
Ho avuto tanta fortuna, ho visto tanto e sentito tanto e buono e cattivo e così così, ho camminato nella Città e nel deserto, sulla sabbia del Pacifico e sulle montagne del sud-est, nella selva anche e senza scarpe.
E mi sento bene, e soddisfatta. Y agradecida. Ora voglio un quaderno bianco da scrivere e ricominciare a lavorare.
A presto.
 

Claudia Crabuzza

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