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Briciole di pane

Editoria, "Cacciatori di frodo" di Alessandro Cinquegrani

Esordio di Alessandro Cinquegrani nella narrativa con un'opera, che fra case cantoniere e binari morti, racconta la nostra Italia

Roma, 17 maggio 2013 - Un monologo di 109 pagine. Questo è “Cacciatori di frodo” , l’esordio nella narrativa di Alessandro Cinquegrani , finalista della XXIII edizione del Premio Calvino e recentemente pubblicato dalla casa editrice Miraggi, già nella scrittura attraverso saggi e manualistica. Ma “Cacciatori di frodo” è un’esperienza narrativa ritmica e avvincente che si focalizza nel racconto di un uomo, Augusto, che vive insieme alla moglie Elisa in una casa cantoniera abbandonata, che si trova vicino un binario morto di una imprecisata zona del Nord-Est italiano lungo le rive di un fiume che trasmette gli echi di guerre lontane e di cacciatori di frodo che lì si sono nascosti per evitare la legge. È l’eco di un passato di un uomo che ogni mattina è costretto ad alzarsi all’alba per andare dalla moglie che si è stesa sul binario, subito dopo una stretta curva, pronta a farsi saltare la testa. Vuole morire, la vita non fa più per lei, ma in realtà lei è già morta, respira soltanto ma non prova niente, assolutamente niente per tutto quello che le succede attorno. Alle spalle di quel matrimonio la perdita di un figlio, morto in circostanze misteriose a soli diciotto mesi, e tanti, tanti segreti che affondano nel passato dell’uomo e soprattutto nei meandri della sua psiche e della sua famiglia, composta da un padre violento e alcolizzato con una particolare predilezione verso il nazifascismo, una madre cattolica che supera ampiamente la linea del bigottismo e un fratello quasi ferito a morte da quello stesso padre che ha lottato tra le linee del comunismo ed è stato anche vittima di un prete pedofilo, lo stesso prete pedofilo che era stato incaricato di “curarlo” dall’omosessualità scoperta dai genitori. Davanti allo sguardo spento di Elisa in attesa che quel treno che mai passerà su quel binario morto “le faccia saltare la testa”, Augusto racconta in un monologo ritmico e rimato tutta la sua vita, le sue tragedie.

Cinquegrani costruisce una prosa inedita e racconta con grande forza – attraverso la tecnica del flusso di coscienza in un’estetica da dramma teatrale – la storia di un uomo che ha perso tutto dalla vita e che ora sopravvive solo insieme ad una donna che dal giorno della morte del loro bambino non ha più aperto bocca, che è sepolta con lui. Così attraverso i pensieri di Augusto e del suo passato vengono alla luce le tragedie di una famiglia che ha abbandonato la confortevole vita piccolo borghese per vivere nel degrado in una casa cantoniera abbandonata. Nell’amplificazione della struttura teatrale, l’autore, presentato anche al Premio Strega per quest’opera, formula il vecchio schema dell’allegoria per raccontare la nostra Italia attraverso i fantasmi di una famiglia all’apparenza come tante. Da loro viene fuori tutta la cronaca dell’ultimo secolo del nostro Paese. Partendo proprio da quei luoghi abbandonati fra la casa cantoniera, il fiume e il binario morto dove un tempo è sorta l’Italia, un’Italia che ha combattuto, per la quale è morta tanta gente nelle battaglie della Prima Guerra mondiale per poi solo fare spazio prima al fascismo (incanalato nella figura del padre), poi ad un’altra guerra, poi alla Prima Repubblica dominata dalle ombre della DC in stretta alleanza con una Chiesa corrotta (la figura della madre e del prete pedofilo) e agli anni di piombo (quella del fratello) per finire con una donna, la moglie, quintessenza di una società contemporanea annichilita dal vuoto e dalla perdita, dall’insensatezza di fatti di violenza che non si comprendono (l’eco della lunga serie di casi di donne che hanno ucciso i loro figli in fasce). Augusto è costretto a fare i conti con tutto quello, lui che ha sempre fatto tutto per loro perché doveva essere un buon figlio, un buon fratello, un buon marito, un buon padre. Alla fine possiede la colpa di averli protetti anche quando non doveva. L’assurdità del vivere umano in un romanzo che non è un romanzo - perlomeno non nel senso più comune del termine – ma più l’essenza di una performance fisica alla Marina Abramovic, il sapore di uno spettacolo teatrale, l’estetica di un’immagine filmica. Un racconto costruito attraverso la forma della parola, che fluisce nelle ossessioni umane attraverso le sue compulsive ripetizioni linguistiche, il ritmo di una poesia interiore, ritmata dalle rime dei suoi versi, che è quella della sofferenza. Il canto di una vita che si consuma fra la terra di un binario morto, la decadenza di una casa cantoniera in attesa che il fiume con tutta la forza mitologica che può possedere spazzi via tutto lo sporco e il dolore dei corpi. Non è certo un libro facile Cacciatori di frodo di Alessandro Cinquegrani sia per temi che per forma di scrittura; per la sua complessità e originalità linguistica si accosta a Esercizi sulla madre di Luigi Romolo Carrino. Insieme due dei migliori volumi narrativi dell’ultima stagione fra le pubblicazioni delle case editrici indipendenti.

Alessandro Cinquegrani, Cacciatori di frodo, 109 pp.; Miraggi, Torino 2012; 12,50 €

Erminio Fischetti