Editoria, "Il sentiero del West" di A.B. Guthrie
Il classico della narrativa americana vincitore del Premio Pulitzer 1950 rivive nella nuova traduzione di Nicola Manuppelli

A distanza di quattro anni da Il grande cielo, primo di una saga di sei opere pubblicate fra il 1947 e il 1982 da A. B. Guthrie, non solo scrittore di romanzi western ed epici ma anche di saggi, sceneggiature (sua è la firma al mitico Il cavaliere della valle solitaria), racconti, libri per ragazzi e poesie (una bibliografia poliedrica e sempre definita però dal tema della frontiera, persino in chiave mystery: molto amata negli anni Settanta e Ottanta la serie di romanzi sullo sceriffo Chick Charleston), Mattioli 1885 propone nella collana Frontiere, ça va sans dire, il secondo titolo, Il sentiero del West (tradotto ancora una volta con molta attenzione da Nicola Manuppelli), l’opera di Guthrie più fortunata, perché premiata anche con un Pulitzer per la narrativa nel 1950.
La grande bellezza e il ritmo del libro di Guthrie stanno nella capacità di raccontare con i toni della lentezza della vita ottocentesca il vecchio West dei pionieri, la quotidianità, le insidie, gli interessi verso quel “qualcosa” che era trovare il proprio posto nel mondo – per quegli uomini non era un senso filosofico, quanto decisamente pragmatico –, foss’anche il vagabondare da un posto all’altro per tutta la vita. Il realismo diventa la chiave di lettura di questo romanzo, come lo era stato anche nel caso de Il grande cielo, ma la sua peculiarità è la capacità di infrangere il mito del sogno americano già alla sua radice, ancor prima dei romanzieri che descrivevano il Novecento, o in particolar modo gli anni Cinquanta. Sarà che il libro è stato scritto a ridosso di quel decennio, ma narra le avventure di Dick Summers, risalenti a un secolo prima, come se fosse quel momento storico: al di là delle pianure, delle carovane, potrebbe essere tranquillamente un’opera che tratteggia la figura di un pubblicitario alcolizzato e depresso che ha appena comprato un televisore. Eppure Dick è sicuramente più felice senza il progresso, in quelle immense praterie, e più va a Ovest più diventa consapevole di sé, forse proprio perché il mito lascia il posto allo spazio, non solo della sopravvivenza, ma dell’essenzialità della vita, priva di orpelli e oggetti inutili con cui da qualche altra parte, proprio a metà Ottocento, con la borghesia e la rivoluzione industriale, altri la affollavano vanamente, mentre Marx ed Engels stavano postulando la loro dottrina e scrivendo Il manifesto del Partito Comunista: era il 1848, due anni dopo l’ambientazione de Il sentiero del West, romanzo dalle molteplici letture, ma essenzialmente un libro, appunto, comunista nel senso più elevato del termine (fortunatamente non se ne accorsero all’epoca della pubblicazione, col maccartismo in piena fase autocratica), che ha reso il western molto più che un semplice genere letterario e i suoi protagonisti – eroi, antieroi, chiamateli come preferite – gli antesignani di quelli della Beat Generation ancor prima di Kerouac o di Easy Rider. Ciononostante il tema del viaggio però è sempre al centro di tutto, e la vita dei suoi protagonisti un profondo richiamo alla malinconia del tempo, di qualsiasi secolo o decennio si tratti.