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Briciole di pane

Editoria, "Parlare da soli"

Andrés Neuman è una delle figure più interessanti nel panorama letterario di lingua spagnola di ultima generazione

Roma, 3 aprile 2013 - Andrés Neuman è una delle figure più interessanti nel panorama letterario di lingua spagnola di ultima generazione. In pochissimi anni ha prodotto opere di pregio che guardano ai cambiamenti sociali del suo Paese (l’Argentina, anche se Neuman vive in Spagna dagli anni ’90, quando era ancora un ragazzino), ma anche di carattere universale. Suo tema di maggior spicco è il viaggio, inteso in tutte le sue più specifiche dimensioni e toni. Dopo “Il viaggiatore del secolo”, che affrontava una rilettura della letteratura del XIX secolo con gli occhi attuali e che lo ha imposto nelle classifiche e all’attenzione della critica internazionale (vincendo inoltre numerosi e prestigiosi premi), e “Una volta l’Argentina”, il racconto autobiografico di una famiglia di giramondo, l’autore ispano-argentino esce ancora una volta nelle librerie raccontando del viaggio con “Parlare da soli”. Ma stavolta la dimensione è diversa, pur nella sua fisicità il viaggio dei tre protagonisti di questo piccolo, ma intenso romanzo ha dei connotati più personali e intimi rispetto a quelli storici del primo e sociali del secondo e affronta questioni come la morte e la malattia con una prospettiva straziante e realistica. Ovvero attraverso il pensiero e la memoria, la riflessione di sguardo dentro se stessi, che si alternano dal senso pratico e tecnico della perdita stessa al senso di vuoto che una perdita può generare. La storia è molto semplice: Mario è un giovane padre, che consapevole di dover morire di cancro, accompagna il figlio di dieci anni Lito in un viaggio on the road su un camion, passando da aree di servizio polverose a motel fatiscenti. Nel frattempo la moglie Elena li attende a casa, tra mille dubbi su stessa e il proprio ruolo di donna, moglie e madre. Un romanzo a tre voci che si dipana lungo tutto il fluire del viaggio di padre e figlio e anche oltre.

Una dimensione di cammino, di ricerca e al contrario di attesa, di una stazionarietà, che porta con sé mille insidie. Ognuno dei tre personaggi racconta sotto forma di flusso di coscienza il suo punto di vista di quei particolari giorni: le piccole scoperte dell’inconsapevole Lito, che non sa che da lì a poco perderà suo padre per sempre, gli interrogativi di Mario sul futuro del suo bambino e poi c’è l’attesa di Elena, un’insegnante di letteratura che vive in un flusso costante di pensieri e dialoghi interiori, bloccata intimamente fra il suo dovere di moglie-infermiera per un uomo che ama e il ribrezzo nei confronti del corpo di lui che trasuda morte da ogni poro e non vuole più. Breve, ma intensissimo, composto di meno di duecento pagine, in “Parlare da soli” assistiamo alle vite di tre persone che stanno per cambiare per sempre a causa del viaggio finale della vita. Se “Il viaggiatore del secolo” è una rilettura della storia del romanzo classico, “Parlare da soli” potrebbe essere definito come la rilettura del flusso di coscienza e un’analisi sul e del linguaggio stesso che si adopera per la scrittura. Infatti, assistiamo alle riflessioni delle protagonista femminile che da avida lettrice si sofferma a sottolineare alcune righe dei volumi cha sta leggendo. Si chiede spesso il significato di quelle parole stampate sulla carta, il senso di quello che vogliono esprimere, gli sforzi che compiono nell’evidenziare stati d’animo, sentimenti, passioni, delusioni e soprattutto morte. La morte che viene più volte intesa come un transito, come un percorso, in realtà non può avere alcuna definizione linguistica precisa (ed Elena si chiede spesso come possa una lingua come l’inglese aver prodotto opere come quelle di Shakespeare ed essere povera di linguaggio di fronte alla spiegazione di un malessere o di una malattia).

A tutti questi interrogativi esistenziali della donna fanno da contraltare quelli più scarni di Mario, che pensa molto più materialmente alla mancanza fisica di se stesso, alla degradazione del suo corpo, alla fine della sua memoria, dei suoi ricordi. Altrettanto diverse sono le percezioni di Lito, che l’incapacità paterna nel compiere anche quelle semplici azioni che prima erano automatiche, a porsi degli interrogativi innocenti sulle cose che osserva lungo quelle autostrade solitarie. Il loro viaggio sarà per sempre impresso nella memoria del piccolo e allo stesso tempo diventerà il suo percorso umano di crescita perché l’ultimo momento di vera innocenza prima che si instilli in lui la tragica consapevolezza della perdita. Perché Mario ora non c’è più, non è più corpo, ma è memoria di chi parla da solo con se stesso e lo ricorda e lo ama. Anche se non lo può più toccare nessuno e non è più possente come quel corpo di cui si era innamorata Elena quando lo aveva conosciuto all’università, non è più forte come tutti i bambini credono che sia il proprio padre. Neuman costruisce un viaggio meraviglioso nell’intimità dei suoi personaggi, nella visione di una geografia umana che molto spesso, come nel caso del piccolo Lito, si associa a ricordi e pensieri di un viaggio vero, reale. Un momento passato insieme, un ricordo può essere scaturito anche nel posto più anonimo possibile, come può esserlo una stazione di servizio lungo una strada che riporterà alla mente qualcosa di più prezioso di un paio di occhiali di plastica comprati per fare felice un bambino. Un libro straziante, illuminante e al tempo stesso di una semplicità quasi sconcertante.

Andrés Neuman, Parlare da soli; 197 pp, Ponte alle Grazie, Milano 2013

Erminio Fischetti