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Briciole di pane

Il GRA conquista Venezia

Vincitore del Leone d'Oro al Festival di Venezia, Sacro GRA di Giangranco Rosi racconta le realtà che circondano il Grande Raccordo Anulare

Roma, 12 settembre 2013 - L’evento. È stata una sorpresa. Sotto tutti i punti di vista. Sia quando è entrato a far parte del Concorso Ufficiale (una scelta inedita e coraggiosa del direttore quella di introdurre i documentari in questa sezione) sia quando poi sabato sera ha conquistato il Leone d’Oro. La sorpresa si chiama Sacro GRA, l’opera filmica di Gianfranco Rosi, che in appena novantatre minuti ha conquistato tutti (o quasi): pubblico, critica e giuria del Festival. Le parole di Bernardo Bertolucci, a capo della giuria, non hanno lasciato spazio a dubbi: "Il nostro Leone d'oro è arrivato con molto entusiasmo. L'abbiamo dato all'unanimità e nessuno dei giurati ha proposto altre pellicole. Io avevo detto all'inizio della mostra che cercavo la sorpresa. Il film di Rosi è sorprendente, è uno 'one man orchestra' perché il regista ha fatto tutto da solo riuscendo a farci scoprire un mondo di luoghi e personaggi con grande stile. Il modo in cui Rosi ci avvicina ai personaggi ha una purezza quasi francescana. Avevamo parlato anche del documentario di Errol Morris. Avevano addirittura pensato di dargli un premio come miglior attore. Qualcuno, non dirò chi, ha suggerito miglior attrice. È bello che a Venezia si pensi a valutare anche i documentari che vincono addirittura il Leone d'oro. Ecco, questa è una cosa nuova e coraggiosa". Una doppia vittoria quella di Rosi se si considera che un film italiano non vinceva un Leone d’Oro dal 1998, da quel Così ridevano di Gianni Amelio, che anche quest’anno era presente a Venezia con L’intrepido, film che però ha riscosso amare e violente critiche. E la risposta di Rosi per questa sorpresa non si è fatta attendere: "Non mi sarei mai aspettato di vincere un premio così importante con un documentario. Non pensavo nemmeno di riuscire ad arrivare a Venezia con un documentario, ma finalmente questo genere prova a confrontarsi con la finzione. Il documentario è cinema. Non dobbiamo avere paura di confrontarci con questa parola. Questo premio è anche dei personaggi del film che mi hanno permesso di entrare nelle loro vite. Qualcuno, in fase di montaggio, è caduto, ma tutti sono ugualmente importanti nell'economia del mio film. Bertolucci parla di film francescano, certamente abbiamo girato con spirito monastico e ci siamo avvicinati all'idea del film dopo tanto tempo. È stato un lungo percorso di avvicinamento al cuore della mia opera. Non è un caso che un maestro attento ai nuovi linguaggi come Bertolucci abbia premiato il nostro documentario. Ieri ho visto il film con i miei attori e loro si sono riconosciuti in quel pezzetto di verità che ho raccolto. In questo modo ho capito che il mio lavoro va nella direzione giusta".

 

Il caso. Polemiche quest’anno pare non si odano e sembra proprio che il  raccordo anulare per una volta abbia messo d’accordo tutti. Questo in teoria perché le polemiche quelle ci sono sempre. Si è sussurrato a Sacro GRA come “premio istituzionale”, considerato che tra i produttori figura anche la Rai. La vittoria è stata comunque una sorpresa, ma nessuno ne ha detto peste e corna, come troppo spesso accade nelle cornici festivaliere dove pubblico e addetti ai lavori sottolineano la sempre maggiore delusione verso un mezzo che non sembra trovare nuovi linguaggi, quantomeno nel suo versante ufficiale. È stato infatti proprio Sacro GRA a ridestare l’animo dei critici molto provati da un’edizione veneziana particolarmente deludente e noiosa, che appena lo hanno visto negli ultimi giorni del Festival se ne sono detti entusiasti.

 

La vicenda. Sacro GRA, presentato ieri sera anche a Roma al Cinema “Quattro Fontane” all’interno della rassegna cinematografica “Venezia a Roma”, è a conti fatti un’analisi meticolosa di un "non luogo", per dirla alla Marc Augé. GRA è acronimo con il quale è conosciuto il Grande Raccordo Anulare “che circonda la capitale”, voluto dall’ingegner Eugenio Gra. Possiede una lunghezza di circa sessantotto chilometri e il suo asfalto e il suo cemento raccontano una serie di storie ironiche, divertenti, drammatiche, intense, lungo quello spazio che non ha identità nella sua forma precisa, ad anello, quindi circolare, infinita nelle sue prospettive, nel suo bagaglio, ma in fondo anche fini a se stesse proprio per il medesimo motivo. Gianfranco Rosi segue i suoi personaggi con attenzione e procede mescolando le storie: dal nobile piemontese decaduto, che vive in un monolocale con la figlia universitaria in un condominio che probabilmente ricalca ancora di più del GRA stesso le teorie di Augé, all’operatore del 118 di cui Rosi segue il lavoro quotidiano, che innesta altre milioni di storie tutte uguali e tutte diverse. Passando per prostitute, transessuali, persone comune, belli, brutti, sani, folli.

 

La critica. Il regista italo-americano presenta l’inedita prospettiva di una città che è fatta di varie forme e dimensioni, lontana da quella accademica e architettonica che tutti credono di conoscere. Lontana, come un punto fra gli altri, come dimostra l’inquadratura del cupolone dalla finestra del nobile piemontese. Ed è così da quella distanza un altro mondo che viene raccontato e si forma attraverso la prospettiva della lontananza, della consistenza che si fa inconsistente, perché tutte queste storie le ignoriamo anche se ci vengono raccontate, le inglobiamo nel nostro bagaglio restando sul fondo dei nostri pensieri. Rosi è maestro nel riuscire a definire tutto il contorno, è anzi proprio del contorno che si fa creatore, è quello il suo messaggio, perché proprio come il GRA definisce un confine fittizio all’apparenza chiuso della città di Roma (perché ormai la città ha scavalcato i suoi confini diventando un qualcosa di indefinito nella sua infinita periferia) anche il documentario punta a quello che non rappresenta la convenzione della città nell’immaginario collettivo. E proprio per questo ne coglie la vera essenza. Perché non è quello che sta in mezzo a rappresentare la città, ma quello che sta intorno a raccontarne i veri valori, le vere prospettive, la vera decadenza. Asciutto, ma a tratti poetico, Sacro GRA racconta Roma e la sua forma, quello che è, il suo mistero, che si riconfigura nella perdita dell’occhio cinematografico della prospettiva di Rosi (che ha girato e vissuto per due anni su un furgone su quel ciglio di strada per coglierne le sfumature). Un viaggio nel viaggio di un cineasta che ha sfiorato l’esistenza di tanti sullo sfondo di un confuso bagaglio storico, sociale, morale, ideologico. Il GRA pertanto diventa co-protagonista del film insieme alla vita, testimone involontario di una mappatura umana in continua evoluzione. E per dirla alla Renato Nicolini, saggista di Una macchina celibe, che ha ispirato il regista, il GRA è un “gigantesco serpente cinetico, figlio del boom economico e della motorizzazione di massa, moderna muraglia che dal dopoguerra cinge la Città Eterna”.

Erminio Fischetti