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Briciole di pane

La Via Appia diventa un docu-film

La docu-fiction di Paolo De Falco racconta la via Appia come metafora della vita

Roma, 9 maggio 2011 - Dopo aver partecipato a novembre alla ventottesima edizione del Torino Film Festival nella sezione Italiana.doc, sabato 16 aprile, presso il cinema multisala Massimo a Lecce, è stato presentato al Festival del Cinema Europeo come evento speciale Via Appia, la pellicola del regista salentino Paolo De Falco. Un’opera che attraverso il percorso di tre uomini lungo la via costruita dagli antichi romani ripercorre in maniera criptica e metaforica i must di un’Italia che non è più un bel posto in cui vivere perché vittima della religione, della mafia, della corruzione, della guerra e soprattutto della nostalgia. Del vecchio. Può un Paese dare valore solo alla tradizione, ai fasti di una gloria passata ormai stantia e oltretutto generare una concezione “ipocrita” dei prodotti tipici? Attraverso alcune storie slegate tra loro, uno scrittore, un ferroviere e un navigatore, vengono raccontate tre linee differenti di viaggio fra mente, terra e acqua, un ritratto del paesaggio naturalistico che accompagna la lunga strada che da Roma arriva a Brindisi, passando per Matera e Taranto e sulla cui via si trova il piccolo centro di Cairano, un paesello arroccato sulle montagne dell’Irpinia Orientale votato a simbolo dell’intero percorso.

Un viaggio all’interno dell’Italia meridionale, che diviene sguardo sull’inutilità della parola in un Paese perso nei suoi intellettualismi e nella propria funzionalità immateriale, incapace di guardare oltre. Il film di De Falco postula sull’incomunicabilità degli individui attraverso una natura maligna e superiore; sottolinea una comunicazione più attiva attraverso l’uso dei segni scritti o meglio del disegno, che può essere geografico, fisico, il di-segno della vita. Vittima: un popolo che si abbarbica sul passato e non sul futuro in luoghi atavici rimasti immobili, piccoli paesini fra le montagne dell’Appennino o nel sud dimenticato, dove tutto è rimasto zitto. De Falco riecheggia alla purezza naturalistica di un’Italia che non si conosce più, arcaica, ma allo stesso tempo si propone nei confronti di un progresso necessario. E in tal senso questi tre personaggi camminano, vanno avanti, seguono un tracciato. Infatti, per costruire è necessario buttare via, lasciarsi alle spalle qualcos’altro. Una pellicola in bilico con quel passato che rinnega sotto la sua sfera tecnica e formale. Sembra voler riecheggiare un De Santis, un Lattuada, un Germi per la descrizione di un ambiente naturalistico sinistro, oscuro, che sembra formato di una prosa da noir, dell’animo in questo caso. Eppure, per contrappasso, il film, che ricerca nel futuro una semplicità arcaica, si rivela forse più vicino all’ultimo Olmi, quello di Centochiodi o di Terra madre, o a un De Seta. Anche se alla fine il “rispetto” etico si rivela pasoliniano.

Non è un caso che il film di Paolo De Falco sia un ibrido fra documentario e narrazione dell’immagine; ha una sua identità che va al di là della mera classificazione di genere. È, così, proprio questa sua incapacità di recintarsi dentro una formula che lo rende affascinante sotto l’aspetto estetico e forse ancor di più nella sua visione filosofica, che diviene per forza di cose un atteggiamento politico (ma non politicizzato, attenzione!). Prodotto da Grad Zero-Film Grad con il contributo del Comune di Roma, della Provincia di Caserta, della Teca del Mediterraneo del Consiglio Regionale della Puglia, dell’Apulia Film Commission e dell’Assessorato alla Solidarieta della Regione Puglia, Via Appia rientra nel progetto dell’Archivio liquido dell’Identità e sembra risultare un’utopica velleità di un artista che conosce il cinema e si approccia a farlo con professionismo rigoroso (nonostante i limitati mezzi economici evidenti). Così, l’opera di De Falco per quanto sconnessa nella sua struttura narrativa (un bene o un male?) possiede quella rara qualità di raccontare qualcosa di intangibile.

Sembra che il film sia inafferrabile nella sua visione rarefatta del mondo, una circolarità di pensieri che si confondono fra viaggi reali e immaginari, quello in treno fra il protagonista e una giovane donna, che si rivela una ricerca “archeologica” del proprio essere, o quello lungo le sponde di un fiume di un uomo che osserva con venerazione una natura statica o l’uomo che nel finale cammina lungo l’orizzonte, allontanandosi dalla macchina da presa, per poi tornare indietro e guardando dentro di essa. La via Appia in fondo si rivela nulla di più o nulla di meno che una metafora ideologica, morale e, come dicevamo, politica. 
Silenzi notevoli che rispettano il concetto dell’inutilità della parola (sani in un cinema italiano spesso isterico, caciarone e urlato) accompagnati da musica dolente, un jazz classico di Giacomo Mongelli suggella l’intera opera, in perfetto stile da piano bar, sono i suoni veri di un film che permea nell’animo di chi sa ascoltare il sottotesto della vita.

Erminio Fischetti