"Le strade in celluloide"
Il cammino della speranza
Roma, 4 giugno 2010 - La strada e il cinema sono legati a doppio filo. In pochi sembrano essersene accorti, ma è così. Il cinema ha trasmesso immagini di viaggi, di percorsi, di passaggi, visioni di nuovi mondi, vite e speranze. È il cinema stesso un viaggio e le due ore che in genere si consumano di fronte allo schermo per vedere un’opera completa rappresentano un viaggio tortuoso e meraviglioso alla scoperta di emozioni straordinarie.
La strada è l’emblema perfetto, la metafora per eccellenza per definire l’essenza stessa della visualità. Ma il cinema non è solo metafora, è anche concretezza, realtà di percorsi, spesso dolorosi e poco piacevoli, drammatici, intensi, ma anche felici e gioviali. Il cinema racconta storie di viaggi veri, di strade percorse nella nostra Italia, nel nostro intero mondo da persone con una loro identità e per diversi motivi. E anche le pellicole italiane possiedono i loro road movie fatti di regole personali e totalmente nostrane, come vi voglio raccontare in questa serie di articoli su pellicole, non sono necessariamente di produzione locale, che raccontano di vite umane sullo sfondo delle strade italiane. Ma qual è il percorso geografico del nostro primo film? E per quale motivo viene compiuto? Dalla Sicilia alle Alpi per entrare clandestinamente in Francia. Dalla Salerno-Reggio Calabria, passando per le statali che collegano Napoli con Roma, Roma con Firenze, e su su fino al valico del Monte Bianco dove le strade italiane terminano per fare posto a quelle dei nostri cugini francofoni. Strade che hanno la drammatica identità del cammino dei nostri antenati che sono andati via per cercare fortuna in un mondo che permettesse loro di sopravvivere. Questo il duro percorso di un gruppo di zolfatari e delle loro famiglie, che nell’Italia del dopoguerra attraversano tutta la penisola per poter trovare un mondo migliore, un luogo migliore dove vivere e sopravvivere. Costretti a lasciare il paesino di Capodarso perché la miniera locale ha chiuso i battenti, non c’è altra via d’uscita che scappare da una terra che li ha traditi e prostrati. Tale vicenda, che ha origine dall’inesauribile realtà quotidiana di quegli anni, trova espressione in una pellicola di Pietro Germi del 1950 intitolata “Il cammino della speranza”, sua quarta opera, che ancora una volta applica la sua forza di estetica filmica traendo ispirazione dalla lezione fordiana e con particolare riferimento a “The Grapes of Wrath”, ovvero “Furore”, uno dei film di matrice rooseveltiana più maturi dell’essenziale regista americano, tratto dal capolavoro di John Steinbeck, che a sua volta narrava un’altra epopea errante fra le polverose campagne dell’America della Grande Depressione. Che ne sapeva un povero solfataro siciliano di dove si trovava la Francia? Un coraggio, quello di questi personaggi, che implica disperazione e la strada, nel suo mito, ripercorre i luoghi di un’Italia dilaniata dalla guerra, di strade che a stento potevano definirsi tali, ma che allo stesso tempo collegavano regioni e popoli di uno stesso governo e di una stessa lingua, ma che in comune non avevano né quella lingua né quel governo, che a sua volta applicava una politica di figli e figliastri, e trascinava su di sé il peso di differenze che quasi novant’anni prima avevano composto un’unità Nazionale di facciata, ma non di fatto, una terra di “facile e dolce declivio dove scivolano dolcemente speranze ed illusioni”.
E in tutto questo la strada funge come testimone involontaria di queste vite, di queste speranze bruciate e distrutte, dove i sentimenti diventano l’elemento comune denominatore dell’infelicità perché necessariamente causa di delusioni. E così le strade raccontate dal cinema, ma anche dalla letteratura, sono sempre state baluardo di una ricerca, di un’essenza contenuta . Compattezza di immagine- respirato in un bianco e nero intenso e fluido- e robustezza narrativa sono le fondamentali espressioni di un momento storico in cui il “nuovo” cinema, quello della realtà, quello della verità, che in Italia viene genericamente assoggettato alla corrente del neorealismo (anche se tale schematizzazione sarebbe riduttiva e sciocca, nel migliore dei casi generalista) che, nato dalle ceneri e dal dolore del fascismo e della guerra, nonché allontanatosi dall’estetica dei telefoni bianchi e del calligrafismo, trovava la sua voce e la sua funzione necessaria al fine di raccontare le traversie di un popolo, di una Nazione costretta ad emigrare in terre per l’epoca incommensurabilmente lontane e sconosciute. Ma sono soprattutto i suoi protagonisti a rappresentare la forza del cinema di questo autore perché inevitabilmente reali, caleidoscopici nella loro funzione ideologica e morale.
Uomini spesso di “paglia”, come ci ricorda il titolo di un altro suo film più recente (del 1958!) e per questo profondamente umani, costretti a fare i conti con la lacerante quotidianità e con la triste sorte di un destino capriccioso e quindi detentori di una coscienza individuale che vuole rappresentare una collettività più vasta e popolare. Alla base di un dualismo essenziale, se si vuole andare ad analizzare il cinema di un regista anomalo sia nelle fila di quelli cosiddetti “d’impegno” che di quelli cosiddetti “d’intrattenimento”, il lavoro di Germi era “soltanto” quello di un buon artigiano, sopravvalutato all’estero per giunta (non a caso “Il cammino della speranza” vinse la prima edizione del festival di Berlino nel giugno 1951 e tutti questi consensi confluiranno nel 1963 con l’Oscar alla miglior sceneggiatura originale per il più famoso “Divorzio all’italiana”), che a quei tempi rovinava la digestione dei borghesi intellettuali postulatori, teorizzatori, strutturalisti. Il discorso “siciliano” del regista genovese dalle idee mazziniane- già messo a punto due anni prima con l’ottimo “In nome della legge”- risulta fra i più interessanti nella storia del nostro cinema perché già votato alla disillusione e alla perdita della fiducia, ma anche fra quelli più criticati e snobbati dalla critica dell’epoca (come si può leggere dagli attacchi fatti da Gian Luigi Rondi su “Il tempo”, da Ennio Flaiano su “Il Mondo” e da Guido Aristarco su “Cinema”, che lo definiva un cerchiobottista e populista, all’uscita de “Il cammino della speranza” nel dicembre del 1950) fuorviata da un’ideologia totalizzante e concentrata sulla visione aristarchiana del neorealismo, brillante e intelligente nella sua ripresa delle teorie di Lucáks e Gramsci quanto limitata esclusivamente ad esse e al profilo e all’estetica viscontiana, per essere rivalutato da quella revisionista degli ultimi due decenni ed essere promosso al ruolo di “autore”, un riferimento spesso pomposo e snob, ma con il quale l’arte filmica europea, dal dopoguerra in poi, ha dovuto fare i conti nel bene come nel male.