Passato e futuro a confronto per salvaguardare il patrimonio stradale
A Roma il convegno degli "studiosi delle strade" ha regalato interessanti spunti di riflessione

Roma, 14 gennaio 2011 – Strade. Visioni e percorsi di una ricerca armonica in un futuro ecosostenibile, ma con uno sguardo di gratitudine verso un passato glorioso ormai superato. In una società che vive ormai dei suoi rifiuti, che ha fatto della politica del riuso uno stile di vita, che si “riequilibra” ricercando nel vecchio la chiave del nuovo, appare naturale l’adeguamento ideologico e pratico, in tal senso, delle rete viaria. Questo si evince dai due seminari sul patrimonio stradale storico – “Le strade e l’ingegneria degli antichi romani” e “Salvaguardia e valorizzazione del patrimonio stradale storico” -, che si sono tenuti martedì 11 gennaio presso la facoltà di Ingegneria dell’Università di Roma “La Sapienza”. Ma per poter arrivare a questo risultato dobbiamo conoscere minuziosamente le capacità degli antichi romani di saper costruire opere rimaste ancora oggi nel patrimonio collettivo mondiale. Lavori di costruzione immortali, che hanno permesso una testimonianza tangibile di una delle culture più antiche del mondo. Strade che ancora oggi dopo millenni percorriamo.
Il primo dei due seminari, in lingua inglese, composto da una serie di interventi da parte di eminenti studiosi del settore è stato introdotto dal Professor Alessandro Ranzo, che in brevissimo tempo ha spiegato i termini tecnici e la suddivisione delle strade in tutti i loro dettagli. Strade costruite sul “potere lavorativo umano” che si suddividono in base all’appartenenza e all’uso. Ad esempio le strade possono avere varie denominazioni: viae pubblicae, privatae, agrariae, vicinae. Essenziale per capire la loro strutturazione e il modo in cui sono state costruite, dal materiale alle dimensioni. Fabrizio Vestroni, preside della facoltà ospitante, che divide il progetto - sviluppato dal Professor John Walker - con l’Università americana “Saint Thomas” del Minnesota, ha introdotto gli auditori ai rudimenti dell’ingegneria degli antichi romani spiegando le caratteristiche geometriche delle costruzioni di quel tempo, costruzioni ellittiche divise in differenti parti connesse fra loro. Lavori eterogenei, forti e solidi che resistono tutt’ora alla disgregazione del tempo e agli eventi naturali. La geometria, la matematica sono discipline connesse all’ingegneria e alla costruzione. E in questo i romani sono stati molto attenti a rendere dinamiche le proprie creazioni. Esempio per eccellenza è stato il Colosseo. Probabilmente scelto per vicinanza logistica, ma in realtà perché la costruzione più importante e interessante di quegli anni. “Non solo per la sua importanza rappresentativa”, ha spiegato Vestroni “ma soprattutto per il potere artistico di quell’opera, per la sua visione ingegneristica, la dinamicità della struttura, la stabilità durante i terremoti”. Al Professor Vestroni è seguito l’intervento del Professor Mario Petrangeli incentrato sulla costruzione dei ponti romani. Di cui si ha testimonianza in tutti i luoghi colonizzati dai Romani, fino in Romania e Serbia. Strutture come quella del Ponte Emilio, ad esempio, che sono composte di grandi massi, blocchi di grosse dimensioni , forme poligonali. Eppure non mancano esempi di massi di piccole dimensioni, con forme differenti nella struttura, nelle dimensioni e persino negli archi.
La civiltà romana è stata quella dell’acqua e delle strade, così introduce il docente Gianmarco Margaritora il suo tema, ovvero quello delle opere idrauliche romane. L’idraulica si sviluppa in tre filoni: il drenaggio, ovvero abbassare le falde, gli acquedotti, addurre acqua e di conseguenza determinare la “civiltà” di un popolo, il trasporto, per via marittima e fluviale senza dimenticare i porti che permettono il collegamento fra terra e mare. Un rapido sguardo soprattutto storico, quello del professor Margheritora. L’idraulica romana comincia con il drenaggio perché sui sette colli la zona era alquanto faldosa e fra un colle e l’altro si situavano molte zone paludose. I romani trasportavano merce dall’Etruria ed era perciò necessario bonificare quelle valli. Tutte bonificate tramite canali che avevano anche funzione di fognatura. In questo modo l’acqua arrivava al Tevere e si consentiva la qualità. I canali erano di grandissime dimensioni, la parte inferiore trasportava i rifiuti domestici, sempre diluiti dall’acqua delle falde. I romani sono stati ingegneri formidabili tanto che questi canali funzionano ancora. La tecnica del drenaggio fu importata dagli Etruschi mentre l’acquedotto è proprio uno sviluppo ingegneristico romano, nonostante precedenti esperimenti fatti durante l’egemonia greca. Nell’Età Imperiale si disponevano di mille litri d’acqua per abitante al giorno. Il Ponte sul Garda è l’emblema di strada e acqua, ma altrettanto importanti risultano il ponte di Segovia e quello di Tarragona, l’acquedotto Claudio, i tre a Porta Maggiore e ad Haifa in Isarele. I tubi erano in piombo e saldati termicamente ai lati tanto che potevano sopportare fino a novanta metri d’acqua ognuno. La civiltà greca è sempre arrivata a Roma tramite i porti di Brindisi, di Pozzuoli e di Traiano; quest’ultimo ha rubato due chilometri e mezzo al mare per via della costruzione dei romani. Quello di Ostia ha funzionato molto bene fino al periodo di Giulio Cesare. I porti sono sempre stati fondamentali per la comunicazione e sono stati la gloria della Roma Imperiale, mentre i canali sono stati la sua sopravvivenza. La Storia ci ha insegnato che le culture sono arrivate ad altre attraverso i porti, quella greca attraverso Brindisi e Pozzuoli, ma da li arrivarono anche i primi ebrei, cristiani. Sempre attraverso i porti.
Gina Agostinelli, docente presso il liceo classico statale di Roma “Pio Albertelli”, ha dissertato sulla scelta dei materiali e gli strumenti utilizzati per queste grandi opere e in particolare sui marmi fungenti come rivestimento. I materiali più utilizzati erano i marmi di Carrara, ma si costruiva anche con la breccia grigia, la basanite, il granito del cui materiale sono fatte le colonne del Pantheon, o la più preziosa porfiria rossa.
Al pomeriggio, il professor Gabriele Malavasi, direttore DICEA (nuovo dipartimento di Ingegneria civile, edile e ambientale della facoltà), insieme al prof. Ranzo, ha introdotto il secondo seminario, incentrato sulla salvaguardia e valorizzazione del patrimonio stradale storico.
Numerosi e preziosi gli interventi, a cominciare da quello prettamente storico di Giovanni Da Rios, professore presso il Politecnico di Milano, che ha appena pubblicato un testo dal titolo esplicativo sui suoi studi, ovvero “Settemila anni di strade”. Da Rios racconta con entusiasmo al pubblico la storia della strada, dalle origini ad oggi. È interessante scoprire che i primi percorsi nascevano già all’epoca dell’homo sapiens, che 30.000 anni prima di Cristo però non lasciava quasi nulla di costruito quando compiva le prime migrazioni dagli altopiani etiopici. Infatti, solo nel 5000 a.C. furono costruite le prime vere strade nelle zone dell’Anatolia. Quindi, la strada, come la conosciamo oggi, accompagna la civiltà da ben settemila anni ormai. Quella strada che ora è dominata dall’automobile e che è stata preceduta dall’invenzione della ruota da ormai cinque millenni. Secondo le ricostruzioni, la prima sembra essere opera del popolo ittita, costruita in Hattusas, in cima ad una collina. Le tracce delle strade ittite permangono nelle iscrizioni di una roccia che spiega al viandante il potere dell’imperatore, che esigeva il pedaggio sulle sue vie. Tale iscrizione può essere definita come il primo pittogramma di segnaletica stradale senza privo della scrittura. Mentre i greci, molto più popolari per le innovazioni scientifiche e lo sviluppo culturale e architettonico, non hanno lasciato ai posteri strade, al contrario, i meno sviluppati persiani possedevano una rete postale avanzatissima, percorsi stradali all’avanguardia, utilizzavano carri e cavalli nonché ruote con una rudimentale aderenza al terreno ed avevano addirittura allestito stazioni per il ristoro e il cambio dei cavalli. Questo avanzato sistema tecnologico lo si può notare in un altorilievo dell’antica Babilonia. Al tempo dei Romani, le strade diventarono strumento di controllo e di conquista del territorio. I suoi ideatori erano importanti nella società dell’epoca. Attualmente gli storici ancora discordano sugli itinerari, quantificano numeri diversi nelle estensioni costruite. Il Medioevo fu invece un’epoca “strana” per le strade. Storicamente quello fu il momento dei percorsi religiosi, della ricerca della spiritualità verso la natura circostante. I pellegrini cercavano, così, tanti percorsi minori rispetto a quelli dell’impero romano. Con i loro viaggi sofferenti, questi uomini di fede cercavano occasioni di sosta diversi dalle strade “ufficiali”, costruite nei secoli precedenti. Cercavano reliquie e ricoveri, spiritualismo e arricchimento dell’animo attraverso pellegrinaggi a Roma, Gerusalemme e Santiago de Compostela. Di tutto questo ha dissertato il prof. Da Rios, ma anche del contributo della feudataria Matilde di Canossa alle reti stradali dell’Appennino, dell’ordine dei templari che svilupparono empori e comunicazioni all’interno della rete stradale. Il Rinascimento fu un’epoca buia per le strade e le lunghe e sanguinose guerre impedirono qualsiasi progresso per la viabilità. Ma fu in quel medesimo periodo, figlio dell’arte e della cultura, che si concepì una visione della strada non solo pratica bensì anche estetica.
Un connubio fra potere e viabilità lo ha dettato alcuni secoli dopo sicuramente l’imperatore francese Napoleone Bonaparte che fra le sue tante massime disse che di lui sarebbero restati ai posteri i grandi lavori stradali. Una convinzione dettata dal suo forte desiderio di lavori di costruzione di importanti e lunghi tratti viabili (ad esempio volle ardentemente la via del Sempione, l’attuale ss 33, che fu ultimata in non più di cinque o sei anni con una galleria e un ponte). Fu però con l’avvento della ferrovia che la viabilità su carro perse d’importanza. Non poteva nulla contro l’avvento delle rotaie. Un passo avanti nella Storia, descritto con dovizia di particolari in molti testi letterari, soprattutto di matrice anglosassone, come “Cranford” di Elizabeth Gaskell. Sempre nell’Ottocento, ci fu una grande diffusione, complice l’uso sempre più serrato di materiali cartacei come libri e giornali, di stampe e incisioni che ritraevano la costruzione di nuovi tratti stradali e dei primi ponti in ghisa, soprattutto quelli alpini. Una curiosità: è del 1918 il primo quadrifoglio con svincoli a due livelli. Interviene il Professor Ranzo ricordando che la rotatoria, negli ultimi anni una grande rivoluzione, era stata inventata in Francia quando ancora non esistevano le autovetture. Piazza Esedra a Roma, infatti, fu realizzata dopo l’Unità d’Italia su riproduzione di ingegneria di matrice francese. “Il futuro ha i piedi del passato, quando pensiamo a qualcosa di innovativo è sintomo di un embrione del passato”, ricorda lo studioso.
Il dottor Simone Quilici presenta, invece, il suo progetto, con la regione Lazio, di valorizzazione della famosa via dei pellegrinaggi a Roma, ovvero la Francigena. “Occuparsi di essa implica occuparsi di tutti gli aspetti della strada” dice . Nel tempo a sua disposizione Quilici ha spiegato il progetto e i lavori di ingegneria naturalistica che permetterà ai fedeli del nuovo millennio di poter ripercorrere gli antichi tratti sui quali passarono i loro antesignani secoli prima. Permettendo, così, attraverso lavori di pulitura, l’inserimento di arredi urbani - per il momento solo quelli necessari -, la messa in sicurezza per i pedoni, di ristabilire una ricerca spirituale consona a chi vuole compiere questi percorsi. Luoghi ormai costruiti o che attraversano strade a lunga percorrenza, uno dei quali donato dall’Anas.
Discorso simile quello del Professor Antonio D’Andrea, che si sofferma sul modo più consono e adatto per poter sfruttare al massimo le strade storiche. A seconda della loro conformazione e possibilità poterle “visitare” a piedi, in bici, in auto. A tal proposito sono stati realizzati studi molto validi sia in chiave legislativa che logistica”. Strade che offrono “punti di osservazione di grane bellezza , un patrimonio culturale che sarebbe un vero peccato perdere”.
La Roma di oggi ricopre, invece, l’interesse del Professor Enrico Genovesi, che da sempre ricerca un modo per permettere una coesistenza fra paesaggio e infrastruttura, problema causato dalla forte espansione urbana, negli ultimi decenni, della capitale italiana.
Interviene ovviamente anche il professore della “Saint Thomas University” del Minnesota, John Walker, impegnato in questo progetto, che ovviamente non può che raccontarci quali sono state le traversie della storia delle strade statunitensi. Una cavalcata che si origina dai primi insediamenti dei coloni inglesi intorno a Jamestown, all’inizio del XVII secolo, fino al fenomeno turistico e di costume che oggi rivestono percorsi leggendari come la Route 66.
È invece uno sguardo totalmente proiettato al futuro quello dell’ingegner Tullio Russo, che ha realizzato un intero percorso di pista ciclabile, in Liguria, nel tratto di un vecchio tracciato dismesso della rete ferroviaria Genova - Ventimiglia. Mostrandoci video e immagini del suo lavoro finito, spiegandoci costi e benefici del progetto, l’ingegnere propone una valida alternativa all’abbandono e all’incuria. Una nuova speranza di recupero di vastissimi luoghi che ritornano alla natura. Pur con il compromesso di un altro mezzo di trasporto: la bicicletta.
L’intervento di Giuseppe Cantisani chiude il cerchio della giornata tirando il filo del discorso ricordando che è necessario “pensare ad una ricerca che scaturisca da una consapevolezza profonda della condizione delle modalità d’uso del patrimonio stradale storico”. Una ricerca che si colloca tra passato e futuro. In una condizione sconosciuta che sia innovativa, ma di cui si ha già percezione. Necessario quindi sviluppare questo patrimonio, inteso come valore anche per quei luoghi in via di dismissione o che non rientrano più nelle reti viarie principali perché inadeguati tecnicamente. Secondo Cantisani il vero problema è la carenza di risorse che investe ormai tutti i settori nazionali ed internazionali. Un’incertezza economica destinata ad aggravarsi sempre più verso la non sostenibilità. Si rende così sempre più indispensabile una ricerca multi-disciplinare che trovi risorse e soluzioni compatibili. Fondamentalmente, battere nuove vie, non solo “trasportistiche”, ma anche legali, economiche, ambientali, sociali. Come potergli dare torto! La Storia ha fatto il suo corso, è ora necessario farne dell’altra. Diversa e nuova.