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Briciole di pane

Saitta: "Anch'io sul Treno del Sole con le valigie di cartone"

Il presidente della Provincia ricorda il suo arrivo a Torino, nell'autunno del 1960

Torino, 12 dicembre 2011 – Di quel giorno conserva la memoria della nebbia a Porta Nuova, un velo lattiginoso che sfumava le sagome dei grandi tram colorati di verde. «Una nebbia spessa, si poteva tagliare con il coltello. E noi lì, straniti, in maglietta e calzoncini corti. Rivedo mia madre chinarsi e frugare nelle valige, quante valige, per tirare fuori le maglie pesanti».

Quel giorno del 1960, in pieno ottobre, Antonio Saitta il sole se l'era lasciato alle spalle: a Catania, dove aveva sostato a lungo sulla banchina della stazione in attesa che il treno, un serpentone di carrozze stracolme, si mettesse in viaggio alla volta di Torino. Da ieri anche quel collegamento è stato soppresso. «Ed è uno sbaglio - commenta il presidente della Provincia -. Al di là della nostalgia personale, è un servizio in meno. Si elimina una possibilità di sviluppo per territori che ne avrebbero ancora bisogno. Per me, e per tanti compaesani, Torino ha rappresentato quello che per altri è stato il sogno americano. Ma bisognava arrivarci, a Torino».

Aveva 10 anni quando mise il piede sul predellino con i genitori e i due fratelli più piccoli: 7 anni uno, 4 l'altro. Oggi, che di anni ne ha 61, si riconosce nelle foto d'archivio in bianco e nero, nei volti dell'umanità dolente e al tempo stesso speranzosa in cerca di un futuro migliore.

Non furono rose e fiori, almeno nei primi anni. «Al momento della partenza vivevamo ad Aidone, provincia di Enna - ricorda Saitta -: mio padre faceva il barbiere, mia madre la casalinga. Laggiù non c'era futuro. Ogni viaggio, una scelta obbligata. Si andava in Germania a lavorare per la Volkswagen o a Torino, la città della Fiat».

E della Juventus, già allora la sua squadra del cuore. A distanza di tanti anni, ricorda quel viaggio come fosse ieri: 25 ore su una tradotta dove il dialetto regnava sovrano e la gente srotolava gli strapuntini nei corridoi, l'aria inspessita dall'odore di cibo e di sudore. «Ma quali cuccette! - ride Saitta -. Autogestione allo stato puro, compreso il mangiare. Ognuno portava quel che aveva: i thermos con il caffè, l'acqua, il pane, la mortadella, il formaggio... Quando ci siamo messi in viaggio mio padre non aveva un lavoro ad aspettarlo». Addio alla casa, ai compagni di scuola, ai parenti. Un salto nel buio: curiosità, certo - «Torino sembrava un miraggio, chi tornava al paese diceva che c'erano i grattacieli» -, ma anche un fiume di nostalgia.

Ad attenderlo non trovò i grattacieli ma un muro di diffidenza: «Al principio fu dura. Rivoli, dove ci trasferimmo subito, sembrava una realtà ancora più remota». Non tutti i ricordi si tengono stretti, e di alcuni Saitta farebbe volentieri a meno: «Ci ospitarono i miei zii. Vivevano in una casa popolare, le "case Fanfani". Esistono ancora. Loro erano in sette, noi in cinque». Così per un anno e mezzo, tutti insieme. Pochi soldi? «Anche. Ma il vero problema è che non si affittava ai meridionali».

C'era chi stava peggio: come i protagonisti della prima ondata migratoria dal Sud tra il '57 e il '58, e prima ancora i veneti fuggiti dall'alluvione del Polesine, che occupavano abusivamente il castello di Rivoli. «All'epoca era diroccato. Là dentro vivevano anche alcuni miei parenti, ogni tanto andavo a trovarli - racconta Saitta -. Stavano in quei cameroni spogli, con i cartoni e i fogli di nylon a proteggere i vani delle finestre in attesa di trovare una sistemazione». I marocchini oggi? Pausa: «Si... la stessa cosa». E poi la chiusura verso i «napuli», appena temperata dalla familiarità con i nuovi arrivati: «Mi resta impressa quella frase... "Sono meridionali però sono bravi"». Pregiudizi duri a morire, attenuati dal mutuo soccorso tra compaesani e dalla solidarietà degli umili: «Il comun denominatore degli operai, meridionali e piemontesi, era la difficoltà di tirare avanti. Alla fine univa tutti, come la famosa "livella" di Totò. Anche la parrocchia fu un riferimento importante».

Tutto misurato in casa, dal cibo ai vestiti: la parsimonia come regola di vita. La differenza la faceva il lavoro, che allora non mancava per chi si rimboccava le maniche: «In tre-quattro mesi mio padre trovò un posto alla Venchi Unica, la mamma venne assunta a una cartotecnica di Rivoli. Io? Studiavo, lavoravo e badavo ai fratelli». Con un occhio alla nuova realtà e l'altro al paese lontano: «Ci tornavamo tutte le estati, in treno e poi con la Fiat Seicento guadagnata da mio padre dopo mille sacrifici. Che festa! Il primo abbraccio con la mia terra era il sapore degli arancini comprati sul traghetto».

Tre anni di avviamento professionale: la mattina sui libri, il pomeriggio passato a lavorare al tornio in una "boita" di Grugliasco. Poi il diploma da geometra e il primo impiego all'Anas, accompagnato dalla passione per la politica maturata nel corpaccione della Dc. L'inizio di un percorso che ha portato Saitta a scalare le posizioni: consigliere comunale, sindaco di Rivoli, consigliere in Regione, presidente della Provincia al secondo mandato. «Ma se non fossi salito su quel treno chissà dove sarei ora: quel viaggio mi ha cambiato la vita».

Alessandro Mondo (fonte: La Stampa, edizione di Torino)