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Briciole di pane

Stazione Termini, sessant'anni di storia italiana

Inaugurata nel 1950 come simbolo della modernità

Roma, 4 gennaio 2011 - Vittorio De Sica la immortalò in una delle sue opere di minor successo. Era il 1953 e il regista italiano filmava con la sua macchina da presa la Stazione Termini così come la conosciamo oggi - con la galleria e i negozi sul fronte principale -, inaugurata il 20 dicembre 1950 dall’allora presidente della Repubblica Luigi Einaudi. In “Stazione Termini”, la protagonista, una bellissima Jennifer Jones, cammina in quei luoghi, stretta nel suo tailleur confezionato da Christian Dior, in attesa di quel treno per Parigi che la farà fuggire per sempre da Roma e da quella cocente passione che l’aveva fatta trasgredire ai suoi doveri di moglie borghese a favore del tenebroso dottore Montgomery Clift, bello e dannato. Una donna americana, e per la concezione dell’epoca sinonimo di modernità, allineata concettualmente con l’impronta che la nascente repubblica italiana voleva dare della sua capitale e dei suoi luoghi cardine. Gettandosi così alle spalle non solo l’antica costruzione voluta da Pio IX nel 1860 (quando l’Unità del Paese era una speranza che cominciava ad albeggiare concretamente), progettata da Salvatore Bianchi e ultimata nel 1874, quando Roma aveva già perso l’egemonia temporale del Papato ed era diventata capitale da appena tre anni dopo le parentesi di Torino e Firenze, ma anche tutti i suoi vecchi e ingombranti retaggi.

Negli anni successivi, la costruzione originaria subì numerosi interventi di ristrutturazione. Poi ci furono i nuovi lavori di ampliamento concepiti dall’architetto Angelo Mazzoni durante il periodo fascista e in vista dell’Esposizione Universale. I progetti dell’architetto furono sottoposti a diverse critiche e ritardi per le modifiche che sempre dovevano essere sottoposte al beneplacito di Mussolini e dell’allora Ministro delle Comunicazioni Antonio Stefano Benni. Mazzoni desiderava integrare il vecchio con il nuovo e tentare di creare un lavoro che si armonizzasse con quello del suo predecessore Bianchi, ma dovette però sottostare ad indicazioni precise che gli imponevano di creare una struttura che fosse il più possibile spaziosa e classicheggiante, che ricordasse quella di un tempio, quindi con archi e soffitti altissimi nonché pregiatissimi marmi rigorosamente italiani. Questi lavori furono interrotti durante la seconda guerra mondiale e successivamente ultimati dagli architetti Montuosi e Vitelozzi, che li avevano riadattati ai nuovi desideri politici.

Un’opera, quella della stazione Termini, che è considerata un esempio di architettura razionalista, nonostante le varie ibridazioni artistiche che subì nel tempo, proprio come il film di De Sica, che fu rimestato in fase di scrittura da diverse eccelse mani - Cesare Zavattini, Paolo Chiarini, Truman Capote, Giorgio Prosperi – e definito un compromesso fra cinema neorealista e cinema hollywoodiano e per questo paragonato dal critico Guido Aristarco al valore di un elzeviro.

Un luogo, la stazione Termini, il cui nome è ancora oggi fonte di dibattito (tra chi lo intende come thermae per le vicine terme di Diocleziano e chi per il concetto di “concluso”, “finito”, di un viaggio per l’appunto), che non è solo sinonimo di arrivi e partenze, vite lasciate alle spalle alla volta di nuovi lidi e nuove speranze, ma anche di commercio e spostamenti quotidiani, frenesie e distrazioni, corse e ritardi in esistenze che lasciano spazio ad altre e al tramutarsi della società e delle loro concezioni e stili. In sostanza, centro di scambio, punto d’incontro per appuntamenti, posto di aggregazione sociale.

Da quel dicembre del 1950 sono ormai passati sessant’anni e tante cose sono cambiate: l’Italia è passata da quei primi anni di lenta ripresa economica dopo la fine del secondo conflitto mondiale agli anni del boom economico, dalle contestazioni giovanili della fine degli anni Sessanta ai più tragici anni di piombo e al rapimento di Aldo Moro, da Tangentopoli alla fine della Prima Repubblica, dall’avvento della seconda ai cocenti anni della recessione. A tutto questo è sopravvissuta Termini, senza contare le accuse e le paure di chi l’ha sempre considerata poco sicura a causa dello spaccio di droga, dell’accattonaggio, del borseggio e dello stazionamento dei barboni nella zona limitrofa. Ma nonostante tutto, Termini ha rappresentato non solo la modernizzazione della sua città, ma anche il suo cuore, il suo centro propulsore, che inevitabilmente lo diventa anche per l’intera Italia (anche per ovvie ragioni geografiche) e quindi ha vissuto in primis tutti i cambiamenti che la Storia ha causato. Nei suoi 225 mila metri quadrati di estensione, che vanno da via Giolitti a via Marsala, ogni giorno mettono piede oltre 480.000 persone, c’è una zona commerciale che si estende su tre livelli, nei quali si susseguono più di cento negozi, oltre alle banche, i fast food, i bar, le waiting room, una palestra, un centro medico etc. Ma non si deve dimenticare, però, la sua funzione primaria: ogni giorno da lì partono almeno 850 treni, numerosi autobus fanno capolinea, due metropolitane vanno avanti e indietro. È questo che fa di Termini uno dei maggiori luoghi di comunicazione a livello nazionale ed internazionale. E anche se dal giugno 2011 la Stazione Tiburtina le “strapperà” via l’Alta velocità, resterà sempre fondamentale al patrimonio romano e alla sua quotidianità. In continua evoluzione ed espansione. E come Mary Forbes, la donna americana interpretata da Jennifer Jones nel film di De Sica, che cammina altera e stretta nel suo tailleur firmato Christian Dior, non lascia trasparire le laceranti passioni che si consumano nel suo animo, così la fredda facciata, che si staglia anonima nel centro di Roma, non riesce a nascondere un serpeggiare di vite piene di speranza e disperazione, che ogni giorno vengono fuori dalle tenebre sotterranee per vivere. Come lucertole al sole.

Erminio Fischetti