Viaggiatore sempre, superficiale mai
Lo sguardo sul mondo di Kapuściński, a dieci anni dalla morte

Questo è un giornale che si occupa di mobilità. Non può quindi non ricordare, a dieci anni esatti dalla scomparsa, un grandissimo giornalista (e scrittore) che fece del ‘muoversi’ il proprio tratto distintivo.
Il 23 gennaio 2007 si spegneva, a Varsavia, Ryszard Kapuściński. Era nato nel 1932. Reporter, a lungo corrispondente dell’agenzia di stampa polacca PAP, ha scritto pagine indimenticabili su Angola, Honduras, Liberia, Uzbekistan, Etiopia, Armenia e molti altri Paesi. Attraversati, quasi sempre, in frangenti storici di alta drammaticità, come guerre civili e colpi di stato.
Kapuściński, le cose le viveva ‘dal di dentro’, non da dietro le vetrate degli hotel internazionali. “L’appartamento che prendo in affitto a Lagos è regolarmente visitato dai ladri. Non soltanto quando parto per un lungo periodo alla volta del Ciad, o del Gabon, o della Guinea, ma pure quando mi reco meno lontano, per poco tempo a Abeokuta o a Osogbo, so che, al mio ritorno, gli infissi della finestra saranno stati smontati, i mobili rovesciati, gli armadi saccheggiati (...). Certo, avrei potuto scegliere Ikoyi, il quartiere sicuro e lussuoso dei nigeriani ricchi, degli europei e dei diplomatici, ma è un luogo artificiale, esclusivo, chiuso e strettamente sorvegliato. Come, se non così, potrei conoscere questa città, questo continente? (...) All’inizio, trovando l’appartamento saccheggiato, ero furibondo. Essere derubati è prima di tutto un’umiliazione, un sentirsi imbrogliati. Mi rendo tuttavia conto che, qui, considerare il furto alla stregua di un’umiliazione o un imbroglio è un lusso psicologico. Vivendo in mezzo alla povertà del mio quartiere, capisco che il furto, persino il più insignificante, può corrispondere anche a una condanna a morte. Un giorno, ho assistito a un furto equivalente a un omicidio, a un assassinio: viveva in un angolo del mio vicolo, da sola, una donna, i cui unici beni erano costituiti da una pentola. Sopravviveva comprando a credito fagioli, che cucinava e rivendeva. (...) Dei ladri le avevano preso la pentola: lei aveva perso il suo unico mezzo di sussistenza”. Sono appunti del 1967, raccolti nel volume ‘Ebano’. Questa prossimità e questa empatia, unite a una formidabile capacità di osservazione, hanno prodotto resoconti straordinari, spesso sconfinanti nell’antropologia e nell’etnologia. Ancora oggi, ‘Ebano’ è considerato uno dei migliori libri mai scritti sull’Africa.
A detta di molti, comunque, il suo capolavoro è ‘Imperium’, saggio-reportage sulla disgregazione dell’Unione Sovietica introdotto dalla rievocazione, autobiografica, della potenza staliniana così come percepita con gli occhi di un bambino di sette anni. La cittadina natale di Kapuściński, oggi in Bielorussia ma nell’anteguerra in Polonia, fu infatti occupata dall’Armata Rossa già nel 1939.
Il viaggio – l’andare ‘altrove’, il varcare la frontiera – è, innanzitutto, confrontarsi con la complessità del mondo, farsi spiazzare dall’inadeguatezza (a volte reale, a volte apparente) della propria scala di valori. Negli anni ’50, Kapuściński è in India. Sale sul treno Benares-Calcutta. E incontra la riprovazione generale, tanto dei ricchi quanto dei poveri: abituato agli standard di vita di un Paese europeo di socialismo reale, non ha minimamente pensato alla necessità di dotarsi di un letto e di un inserviente. “Mi sentivo sinceramente mortificato di non avere con me altro che una borsa a mano: ma come potevo sapere che, oltre al biglietto, avrei dovuto provvedermi anche di un materasso? Del resto, anche se l’avessi saputo e ne avessi comprato uno, non avrei certo potuto trasportarlo da solo, mi ci sarebbe voluto un servo. Che fare, poi, del servo? E del materasso? Avevo notato, infatti, che a ogni tipo di oggetto e di mansione era preposta una persona diversa, attaccata con le unghie e coi denti al proprio ruolo e al proprio posto, e che in ciò risiedeva l’equilibrio di quella società. C’era l’addetto per il tè del mattino, quello per pulire le scarpe, quello per lavare le camicie, per spazzare la camera e via di seguito. Guai a chiedere all’uomo che mi stirava le camicie di attaccarci un bottone caduto. (...) Quella società era un pedante e capillare intreccio di cariche, mansioni, qualifiche e impieghi e occorreva una buona dose di esperienza, sensibilità e intuito per arrivare a decifrare una struttura così minuziosamente intessuta”.
Ma il viaggio del giornalista è ancora altro, è molto di più. “Il viaggio a scopo di reportage – ebbe a dire negli ultimi anni della sua vita – esige un duro lavoro e una solida preparazione teorica. È un modo di viaggiare senza un momento di relax, in continua concentrazione e raccoglimento. Dobbiamo essere consapevoli che il luogo nel quale siamo giunti ci viene concesso una sola volta nella vita, che probabilmente non ci torneremo mai più e che abbiamo solo un’ora per conoscerlo. In un’ora dobbiamo registrare l’atmosfera e la situazione, vedere, ricordare, sentire più cose possibili. Il viaggio a scopo di reportage esige un surplus emotivo e molta passione. Anzi, la passione è l’unico motivo valido per compierlo”.
Questi era Ryszard Kapuściński. Ci è sembrato giusto ricordarlo.