Le infrastrutture, un motore potente frenato da austerity e burocrazia
Banca d'Italia stima a 40 miliardi di euro il prezzo pagato ogni anno per i ritardi nel campo della logistica
Milano, 7 maggio 3012 - In ballo c'è la capacità o meno di uscire dalla recessione, rientrando nelle grandi direttrici dei collegamenti internazionali. Intorno all'ammodernamento della rete logistica si gioca una partita decisiva per l'Italia perché coinvolge non solo la rapidità dei trasporti, ma anche la produttività della filiere di produzione e distribuzione, coinvolgendo quindi tutti i principali ostacoli alla competitività del Paese.
Cosi la stima fatta dalla Banca d'Italia - 40 miliardi di euro il prezzo pagato ogni anno per i ritardi nel campo della logistica - oltre a preoccupare per la sua portata, si presenta come una sfida da cogliere per agganciare la ripresa. Strade e ferrovie inseguono l'Europa. Colmare il gap non è affatto semplice, considerato che gli interventi necessari coinvolgono sia ingenti investimenti pubblici (difficili da realizzare in una fase di austerity), sia il ginepraio di competenze tra i diversi livelli dell'amministrazione pubblica.
Il trasporto su gomma è di gran lunga il canale più gettonato in Italia, eppure il ritardo accumulato rispetto ai grandi Paesi europei è evidente. In un recente studio presentato da Unioncamere Uniontrasporti vengono indicate le opere prioritarie per la Penisola, tra cui il Terzo valico dei Giovi, il Brennero, la Brebemi e le autostrade pedemontane, la Salerno-Reggio Calabria e la Orte-Mestre. Iniziative che comportano risorse per 73,8 milioni, di cui circa la metà ancora da reperire. Il governo Monti ha indicato negli investimenti infrastrutturali uno dei cardini della propria azione da qui a fine legislatura: in gioco c'è la capacità di reperire finanziamenti internazionali per completare le opere più importanti e spostare così, verso sud, il baricentro dei trasporti europei.
Il discorso vale anche per i trasporti su rotaia, tradizionale tallone d'Achille per la Penisola (assorbe intorno al 6% del traffico complessivo), non tanto in valori assoluti (il Libro Bianco sui Trasporti della Commissione europea rileva 5,5 chilometri di rete ferroviaria ogni 100 chilometri quadrati di superficie, dietro a Germania e Regno Unito, ma davanti a Francia e Spagna), quanto per le discrepanze a livello territoriale (con il Sud e le isole in coda per la copertura). La situazione per i pendolari è drammatica: dal rapporto Pendolaria di Legambiente emerge che nessuna Regione italiana dedica più dell' 1 % del proprio bilancio al trasporto su rotaia. Diversa la situazione nell'alta velocità, che negli ultimi anni ha portato alla nascita della" Metropolitana d'Italia" (tre ore circa per collegare Roma e Milano) e al rifacimento di numerosi scali ferroviari, aprendo l'offerta alla concorrenza privata con il recente debutto di Ntv. Se su questo fronte l'Italia fa scuola in Europa, lo stesso non vale per il trasporto merci, in cui - come rileva l'ultimo rapporto di Unioncamere e Uniontrasporti - il processo di liberalizzazione è rimasto in buona parte non attuato. Anzi, negli ultimi anni sono stati chiusi diversi scali.
Aeroporti verso la cura dimagrante. Sul fronte aeroportuale si va verso una razionalizzazione dopo anni di corsa all'apertura di nuovi scali che ha soddisfatto i campanilismi, ma penalizzato l'efficienza del sistema. La sfida a medio termine, a fronte di una crescita del traffico stimata intorno al 3,2% annuo fino al 2030, è sviluppare hub intercontinentali (a Fiumicino, Malpensa e Venezia) per superare il basso livello di concentrazione del traffico italiano e razionalizzare la rete attuale. Il piano nazionale degli aeroporti messo a punto da One Works, Kpmg e Nomisma, attualmente all'esame del Governo, stima inoltre 11 miliardi i soli lavori urgenti per adeguare la capacità degli scali strategici. Lo studio individua una mappa nazionale composta da 42 scali, mentre cinque (Albenga, Siena, Grosseto, Tortoll e Marina d'Elba) vedranno cessare i contributi Enac. La stessa cosa accadrà fra tre anni ai 18 scali oggi inseriti nella mappa nazionale, ma individuati come "di servizio": strutture che fanno capo a centri di medie dimensioni, che verranno abbandonati al loro destino se non sarà ristabilita per questi scali una gestione economica sostenibile nel prossimo triennio. A meno che le Regioni non decidano di finanziarli in proprio (ipotesi di difficile realizzazione).
La burocrazia ingessa i porti. Problemi simili si ritrovano nello scenario dei porti italiani, che negli ultimi tempi hanno perso quote rilevanti di mercato rispetto ai competitor europei. Uno studio dell'Isfort (Istituto superiore di formazione e ricerca per i trasporti) fotografa le difficoltà dei nostri scali, parlando di eccessiva frammentazione e insufficiente supporto dalla rete ferroviaria: insomma, anche in questo caso occorre sfidare i campanilismi e chiudere gli scali più piccoli, dirottando gli investimenti per migliorare quelli che si muovono su dimensioni internazionali. Il risultato dell'attuale stato delle cose, spiegano gli autori dello studio, è la prevalenza di un traffico interregionale, di territorio, che difficilmente riesce a raggiungere le grandi piattaforme logistiche del Nord Europa. Rotterdam e Amburgo sono ormai divenuti gli snodi principali per il Vecchio Continente, grazie allo sviluppo di servizi a valore aggiunto, a cominciare dalla lavorazione e lo stoccaggio delle merci in arrivo nei container. Infine vanno superati i ritardi burocratici e doganali che bloccano le merci nei porti troppo a lungo e occorre far decollare collegamenti intermodali capaci di mettere in relazione i diversi sistemi di trasporto.
Una sfida, dunque, economica e culturale, dal cui esito dipendere una fetta della crescita.