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Briciole di pane

Mobilità urbana, Milano verso una low emission zone

Il sempre difficile rapporto tra le esigenze ambientali e quelle trasportistiche

Roma, 17 settembre 2013 - Notizia di metà agosto. Piuttosto dibattuta, nonostante il periodo di sospensione di molte attività. Il comune di Milano, abbiamo letto, sta muovendo i primi passi per la creazione di una low emission zone. Con la finalità di limitare, o almeno tenere sotto controllo, l’inquinamento proveniente dai mezzi pesanti, responsabili, secondo gli studi, del 25% delle polveri sottili scaricate ogni giorno nell’aria del capoluogo ambrosiano.

In pratica: a cominciare da ottobre, saranno installati 20 varchi elettronici in alcune delle principali arterie di ingresso a Milano. Si darà avvio a una fase di conoscenza e analisi, per capire, nel dettaglio, quanti mezzi pesanti circolano e per quanto tempo restano in marcia. A regime, le telecamere saranno addirittura 106. La città si troverà, così, ad avere ben due cinture di controllo del traffico: quella interna di Area C e quella esterna coincidente, grosso modo, con i confini del territorio comunale. A quel punto la raccolta di dati potrà perfezionarsi. Le statistiche sull’inquinamento prodotto dai mezzi in questione avranno raggiunto un notevole livello di attendibilità e si potrà porre mano allo sviluppo finale del progetto: l’implementazione di una low emission zone vera e propria, che andrà regolamentata con divieti di circolazione o con il pagamento di ticket per camion e mezzi pesanti (i documenti tecnici già parlano di sistemi di tracciamento, vetrofanie, apparati di bordo).


Come valutare quella che si preannuncia alla stregua di una svolta epocale, o poco meno? L’argomento, comprensibilmente, è delicato. Suscettibile di innescare polemiche. Le associazioni dell’autotrasporto hanno criticato il progetto. D’altra parte, Milano è coinvolta, assieme ad altre undici città europee, in un’iniziativa dell’AEA (Agenzia Europea dell’Ambiente) volta alla revisione della politica e della legislazione sulla qualità dell’aria: non si potevano non assumere iniziative utili, quanto meno, allo studio delle emissioni inquinanti. Qui possiamo proporre solo due considerazioni generali tra loro strettamente correlate, senza entrare in alcun modo nel merito delle scelte.


Prima considerazione: Milano è, dal punto di vista geografico, un enorme agglomerato urbano. Uno dei più estesi in Europa, per intenderci. Arriva fino a Gallarate, Busto, Como, Merate, Lecco. Ora, che un progetto di tale valenza ricalchi esattamente i confini amministrativi del comune di Milano è sì conforme all’assetto istituzionale vigente, ma poco adeguato alla realtà delle cose. Le restrizioni all’accesso dei mezzi pesanti a Milano avranno sicuramente delle sensibili ripercussioni sui comuni dell’hinterland in termini di congestione, traffico, logistica, competitività delle filiere. E non è ben chiaro chi debba farsi carico di tali ripercussioni.

Il Piano Nazionale della Logistica, per esempio, adottava una filosofia di fondo diversa, con un’impostazione basata sulle cosiddette ‘piastre logistiche’, anche nel tema specifico della distribuzione urbana merci. Insistendo, testualmente, sullo “sviluppo della competitività logistica delle aree metropolitane” in un’ottica di accessibilità, interna ed esterna, ai grandi aggregati urbani di tutta la piattaforma territoriale Nord-Ovest (Piemonte, Lombardia, Liguria) la cui vocazione manifatturiera non può, e non deve, essere penalizzata. Così, in maniera molto chiara, il Rapporto di Sintesi “Piano Nazionale della Logistica: analisi demo-socio-economica e infrastrutturale delle piattaforme logistiche territoriali” del giugno 2011. Di certo, comunque, sul piano istituzionale e amministrativo, l’avvio delle Città Metropolitane appare come qualcosa di non ulteriormente procrastinabile.


Seconda considerazione, strettamente connessa alla prima. Quando, e se, il Comune di Milano adotterà il provvedimento di divieto di circolazione (o di pagamento del ticket) per i mezzi pesanti, lo farà in base al Codice della Strada. In particolare: in base a quelle norme che stabiliscono i poteri di regolamentazione della circolazione degli Enti proprietari delle strade. E’ sempre stato così, anche in passato: le norme giuridiche che ‘funzionano’ davvero sono gli articoli 6 e 7 C.d.S., in tutto corrispondenti agli articoli 3 e 4 del Codice stradale del 1959. Norme che si riferiscono, appunto, al proprietario della strada e ai provvedimenti che questo può assumere per “motivi di incolumità pubblica”, per “motivi attinenti alla tutela del patrimonio stradale o ad esigenze di carattere tecnico”, per “esigenze di prevenzione degli inquinamenti e di tutela del patrimonio artistico, ambientale e naturale”.

Mancano, in questo elenco di locuzioni legislative, ed è un’assenza che colpisce, le esigenze della mobilità complessiva. In un agglomerato urbano, la regolamentazione della circolazione nel comune centrale impatta pesantemente sulla viabilità delle città satellite che lo circondano; e, naturalmente, su quella delle grandi arterie di accesso e attraversamento (di solito, poste sotto la responsabilità del gestore nazionale). Non è pensabile che 25 mila veicoli tra camion e betoniere (a tanto ammonta la stima sui mezzi pesanti che ogni giorno entrano in Milano) scompaiano: troveranno altri percorsi, altri orari, altri stazionamenti, altre destinazioni limitrofe. Ossia: altre soluzioni logistiche, non necessariamente meno inquinanti delle precedenti. In definitiva: quale autorità si fa carico del miglioramento, o del peggioramento, della mobilità complessiva? E’ una domanda che, a quanto pare, non sa trovare ancora una risposta precisa.
 

Carlo Sgandurra