Flash news Infrastrutture:
 
 

Briciole di pane

Veicoli non UE, un fenomeno in crescita sulle nostre strade

Organi di Polizia stradale chiamati a una sempre maggiore professionalità

Roma, 6 marzo 2014 - In genere, occupandoci di mobilità, siamo portati a pensare che un autoveicolo possa circolare su qualsiasi strada di qualunque territorio. Il che, dal punto di vista tecnico, è senza dubbio vero. Lo è anche dal punto di vista giuridico? Istintivamente, diremmo di sì: targhe francesi e tedesche (ultimamente, anche rumene e polacche) appartengono ormai al nostro quotidiano orizzonte visivo. Ma si tratta di un errore di prospettiva; dovuto alla circostanza che negli ultimi decenni ha funzionato, piaccia o no, l'ordinamento della Comunità Europea. In realtà, invece, sussiste una norma generale di segno opposto: ispirata a un principio di "divieto", non di "libertà". Questo perché l'autoveicolo, che noi identifichiamo, et pour cause, con un "mezzo di trasporto", è anche, concettualmente, un bene (di non poco valore, oltretutto). In quanto tale, è assoggettato al diritto doganale: il solo varcare della frontiera fa sorgere, almeno potenzialmente, un’obbligazione tributaria doganale.
Come conciliare questo principio con le esigenze e le dinamiche proprie di una sempre più pervasiva mobilità terrestre, che inevitabilmente porta migliaia di persone a oltrepassare, senza soluzione di continuità, i nostri confini? Per i cittadini UE, come si accennava, non è prevista alcuna formalità doganale. Per gli altri, può operare il cosiddetto regime di “importazione temporanea”, sancito anche da accordi internazionali (Convenzione di New York del 1954, recepita dalla Direttiva 83/182/CEE). Da tenere ben presente, quindi, quando si vede passare una targa moldava, albanese, bielorussa o serba.
I veicoli in regime di importazione temporanea non sono tenuti al pagamento dei diritti doganali e non sono accompagnati da documenti doganali, in quanto la possibilità di identificare il bene si considera già garantita dalla presenza di numeri di serie (targa, telaio, ecc.). In pratica, al momento dell’ingresso in Italia i titolari dei veicoli in questione, residenti all’estero, non devono ottemperare a nessuna tipologia di obbligo. Ma è un regime subordinato a presupposti rigidi e tassativi. In particolare: il veicolo può permanere in Italia per non più di sei mesi; deve essere guidato solo ed esclusivamente dal titolare, o da persona delegata, o da un suo congiunto entro il terzo grado pure residenti all’estero, ovvero da persona residente in Italia purché qualcuno dei predetti (proprietario o congiunto) si trovi a bordo; il veicolo deve essere impiegato soltanto per uso privato e non per uso commerciale. Mancando questi presupposti, scattano le gravi sanzioni, amministrative o penali, in materia di contrabbando. Sanzioni la cui applicazione, certo, sarà a cura degli organi di polizia tributaria; ma a partire, invariabilmente, da controlli su strada, ossia da segnalazioni provenienti dagli organi di polizia stradale. A conferma del fatto che la professionalità di questi ultimi è, e deve essere, di massimo livello. Perché la strada è, effettivamente, una città lineare, che riflette, ingigantendoli, gli ordinari problemi regolativi e normativi del tessuto socio-economico.
Per tutti, poi, UE o non UE, vale l’art. 132 del Codice della Strada: entro un anno dalla permanenza continuativa in Italia, la vettura deve essere reimmatricolata. Tale norma, che ha evidentemente una ‘ratio’ diversa da quelle doganali, traduce in maniera fedele la Convenzione di Vienna dell’8 novembre 1968, per la quale ogni Stato contraente è libero di rifiutare di considerare in “circolazione internazionale” un veicolo che sia rimasto sul suo territorio per un periodo superiore a un anno senza interruzioni di rilievo. La “circolazione internazionale” è, per definizione, quella del veicolo immatricolato all’estero, appartenente a persona fisica o giuridica residente all’estero e non definitivamente importato nel territorio nazionale.
 

Carlo Sgandurra