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Briciole di pane

“Stiamo assistendo a un mutamento che può smarcare la collettività dalla dipendenza dalle tecnologie fossili”

Intervista ad Alessandro Abbotto, Professore ordinario di Chimica organica dell’Università degli studi di Milano Bicocca - di Erminio Fischetti

Quando si comincia a parlare per la prima volta di mobilità elettrica nella storia? E come mai il motore termico, nonostante le problematiche connesse all'estrazione del petrolio - non sappiamo quanti siano con precisione i miliardi di barili residui ma sappiamo che ne sono stati estratti oltre 130 miliardi -, ai combustibili, al trasporto e all'inquinamento, è ancora prevalente?

La storia dell’elettrico inizia nell’Ottocento con nomi come Luigi Galvani, Alessandro Volta e Benjamin Franklin e con il primo sviluppo in Francia delle prime batterie elettriche per vetture. Da quel momento i prototipi di vetture che si muovevano da sole, le “auto-vetture”, non si contarono più. Tra questi anche i prototipi sviluppati da William E. Ayrton e John Perry, che per primi misero a punto un veicolo elettrico nel 1882, e da Thomas Parker, che elettrificò la metropolitana di Londra e si attribuì l’invenzione dell’automobile elettrica nel 1884. A loro si deve l’ingresso ufficiale dell’automobile elettrica nella storia. I motori elettrici, per le limitate percorrenze dell’epoca, in quanto non c’erano grandi necessità di movimento, andavano più che bene, proprio in contemporanea con il progresso della tecnologia del ciclo Otto e del motore Diesel, che invece erano scomodi per le necessità del tempo, oltre che inquinanti e rumorosi. La svolta arriva quando all’inizio del Novecento si diffonde l’estrazione del petrolio e allora come oggi, nonostante adesso ciascuno sia consapevole delle criticità legate all’inquinamento, al costo estremamente volatile del carburante alla stazione di servizio e alle tensioni geopolitiche connesse allo sfruttamento del greggio, il motore termico risulta preferibile per la comodità d’utilizzo legata alla sua alta densità energetica, nonostante si tratti di una tecnologia che mostra i suoi anni.

Come mai l'efficienza Tank-to-Wheels di un veicolo a batteria è così superiore rispetto all'idrogeno e al benzina/diesel?

Senza voler entrare in tecnicismi – c’è di mezzo anche il secondo principio della termodinamica – l’automobile termica di per sé non è efficiente perché trasforma in energia utile solo una piccola parte del carburante, il 20-30%, tutto il resto si dissipa in calore, tanto che i motori termici non si possono certo toccare con una mano durante il loro funzionamento. Il motore elettrico, che è molto meno complesso, perché non ci sono ingranaggi, trasformatori, alberi motore o cambio, rovescia esattamente le percentuali: l’energia utile trasferita direttamente alle ruote per il movimento del veicolo è intorno al 75-80%, quella dispersa fra il 20 e il 30%. Non c’è dubbio che quest’efficienza tecnologica assai maggiore sia dunque il primo, vero vantaggio dell’elettrico.

 

Nel suo libro c'è una bellissima immagine della fuga in Egitto della sacra famiglia di Giotto, a dimostrazione che da sempre l'uomo ha desiderio e necessità di spostarsi: ma qual è il futuro della mobilità?

Penso che ci troviamo di fronte a un radicale cambiamento di abitudini, come è avvenuto alla fine del diciannovesimo secolo quando le persone, che si spostavano perlopiù a piedi, a cavallo o con l’asino, hanno scoperto la mobilità motorizzata. Ora di nuovo si sta assistendo a un mutamento che può smarcare la collettività dalla dipendenza dalle tecnologie fossili: pensiamo per esempio alla diffusione dello smart working, del telelavoro, della telemedicina. Oggi la maggioranza delle conferenze avviene in video call, e le persone che hanno scoperto questa comodità non sono più disposte a sobbarcarsi sei ore di viaggio per magari una sola ora di riunione: ci si sposterà dunque sempre meno e in modo differente. Esistono poi già delle best practices in Europa, come a Parigi, dove è stata attuata l’idea della ville des proximités, ossia una città in cui sono state abolite le lunghe distanze e le ampie percorrenze, perché da qualunque punto ci si muova tutti i servizi essenziali sono raggiungibili in quindici minuti a piedi o in cinque minuti in bicicletta, o anche al di fuori del Vecchio Continente: si pensi al progetto NEOM in Arabia Saudita, una città che sorgerà ex novo, e la cui massima estensione sarà di decine di chilometri in lunghezza, completamente senza auto, perché per i tragitti più ampi saranno realizzate metropolitane e treni sotterranei iperveloci. Per il vero cambiamento però non è sufficiente sostituire la tecnologia, è chiaro che dev’esserci un impegno in questo senso da parte delle amministrazioni che devono rendere preferibili soluzioni alternative rispetto a quelle tradizionali, incentivando altri tipi di mobilità.

Lei spiega dettagliatissimamente com'è fatta un'auto elettrica: come si possono ridurre i tempi di ricarica delle batterie e aumentare le autonomie di percorrenza? E la sempre maggiore presenza di colonnine può creare problemi alla rete elettrica generale?

Parto dalla seconda parte della domanda: in realtà chiunque può fare dei calcoli e vedere che moltiplicando il consumo di energia per chilometro per la media percorrenza annua (circa 14,000 km) e, infine, per il numero delle auto elettriche, anche se magicamente tutti i veicoli diventassero elettrici il loro fabbisogno energetico sarebbe una piccola percentuale di quello attuale. Ipotizzando in Italia, come fatto da alcuni studi, un parco macchine elettrico di 10 milioni di veicoli (oggi siamo nell’ordine dei centomila) per il 2030, si prevede un impatto sulla domanda complessiva di energia elettrica inferiore al 5%. A livello mondiale si stima che la domanda di elettricità per la mobilità elettrica costituirà solo circa il 2% del consumo complessivo. Il problema è tutt’al più il picco dei consumi in certi momenti della giornata, ossia cosa succede se tutti ricaricano il proprio veicolo nello stesso momento, per esempio durante la notte. Questo problema si risolve pianificando intelligentemente le ricariche: se io vado al lavoro a piedi posso ricaricare il mio veicolo, anche con ricarica lenta, durante il giorno, mentre chi deve utilizzare l’automobile durante le ore diurne allora potrà collegarsi alla rete elettrica, sempre con ricarica a bassa potenza, durante la notte. La tecnologia, inoltre, ci sta venendo molto incontro per quanto riguarda l’autonomia delle batterie e i tempi di ricarica: a parità di peso se dieci anni fa una batteria garantiva un’autonomia di cento chilometri, oggi arriva a 400-500, e ci sono già veicoli che assicurano una percorrenza di oltre 1000 chilometri. Questo dunque in generale è un falso problema, che si risolve abituandosi a una nuova mobilità. Certo è che, soprattutto fuori casa e in ambito extraurbano, bisogna incentivare la ricarica veloce, che garantisce di riportare da quasi zero, un livello che in realtà con l’elettrico non si raggiunge mai, all’80% la batteria in soli 15-20 minuti: non saranno mai i 3 minuti del pieno di benzina, ma si tratta comunque di un dato accettabile, soprattutto se la breve pausa per la ricarica viene sfruttata per altre necessità. Anche perché parliamo di situazioni limite: le statistiche ci dicono che le percorrenze medie degli automobilisti si aggirano sui 30/40 chilometri al giorno, e che nel 95% del tempo l’auto è ferma. Certo è che, sia nelle città sia in ambito extraurbano, il numero di spazi per la ricarica non è ancora adeguato e in linea con quello di altri paesi e gli slot di ricarica sono spesso occupati abusivamente innanzitutto da auto termiche ma anche da auto elettriche che hanno terminato la ricarica e che non vengono spostate. Il malcostume appartiene anche all’automobilista elettrico, che ritiene erroneamente che quello sia un posto a lui riservato, non considerando che, se tiene lì l’auto parcheggiata per 24 ore, priva altre 23 utenti della possibilità di una ricarica della durata di un’ora, sufficiente nella maggior parte dei casi. In questo senso le amministrazioni devono scegliere di disincentivare queste pratiche. Mi lasci poi dire che le colonnine in realtà non sono così poche come sembrano: certo dovremmo arrivare ai livelli dell’Olanda, dove in proporzione sono il decuplo, ma in realtà il numero è paragonabile a quello delle stazioni di servizio. Tuttavia non è sufficiente, perché per far sì che l’automobilista consideri l’elettrico come una valida opzione deve poterle trovare dappertutto, sapere che in ogni luogo in cui lascerà la macchina – supermercato, cinema, lavoro, luoghi turistici… - non rischierà di rimanere a piedi. Basterebbe copiare la tecnologia che già c’è: in Nord Europa esistono lampioni lungo le strade che, in quanto tali, sono già raggiunti dalla corrente elettrica. Dotare di prese per la ricarica ciascuno di quelli che illuminano anche le nostre strade sarebbe un gioco da ragazzi. Chiaramente, allo stato attuale, il modo più comodo per ricaricare un veicolo elettrico resta, se ne si ha la possibilità, casa propria.

Come mai secondo lei la Norvegia, che pure estrae petrolio, è leader nella vendita di elettriche BEV? Una questione culturale?

Non solo, è soprattutto una questione di scelte di tipo politico-amministrativo, e quindi se vogliamo certamente sì, anche culturale, ma non a livello di mentalità del singolo, bensì delle istituzioni. I norvegesi sono automobilisti come noi: da loro l’elettrico è diffuso, tanto che nelle vendite di veicoli nuovi quattro su cinque sono elettrici, e il diesel è pressoché scomparso, perché non è percepito come da noi, a volte immotivatamente, ma comprensibilmente, come scomodo, ma come una tecnologia facile e agevole da usufruire, oltre che molto piacevole. Ci sono vantaggi e incentivi, e in Norvegia non ci si deve preoccupare di dover cercare un punto di ricarica, visto che ce ne sono ovunque. Infatti il modello di autovettura più venduto è un modello a bassa autonomia, che raggiunge a malapena i 300 km, che in Italia verrebbero ritenuti assolutamente insufficienti.

Come si smaltiscono i rifiuti dell'elettrico? Perché in Italia fotovoltaico ed eolico sono ancora minoritari?

Il principale rifiuto è la batteria, e la soluzione al suo smaltimento è non smaltirla subito dopo l’uso in automobile, che comunque viene assicurato per molti anni (i tassisti elettrici negli aeroporti di Londra guidano per centinaia di migliaia di chilometri le loro vetture senza che la batteria possa ancora considerarsi da sostituire). Infatti le batterie esauste, come racconta per esempio un progetto attuato a Mirafiori dal gruppo Stellantis, possono avere una seconda vita per altri 10-20 anni come sede di stoccaggio di energia elettrica. Quando poi anche questo secondo utilizzo non è più possibile bisogna pensare al riciclo, in particolare dei materiali contenuti nelle batterie, rari e preziosi e riutilizzabili fino al 99%, come il cobalto, il nichel e il manganese. Per quanto riguarda fotovoltaico ed eolico in realtà non è vero che siano così minoritari, ossia lo sono ma di poco: in generale il comparto delle energie rinnovabili copre il fabbisogno complessivo di energia elettrica in Italia per oltre il 40%, e se l’idroelettrico è rimasto grosso modo stabile il grande sviluppo è stato proprio del fotovoltaico e dell’eolico. Il problema è che bisogna snellire la burocrazia: se ci vogliono non mesi ma anni per impiantare un parco eolico, nel frattempo quel progetto in attesa dell’approvazione diventa obsoleto e inefficiente. La tecnologia in questi ambiti è infatti in grande sviluppo e i costi di un tempo sono ora, anche grazie all’industria asiatica, ridotti a una piccola frazione. Ma l’Italia dal 2011 a oggi è stata pressochè ferma, e ora recuperare il ritardo è difficile: se avessimo mantenuto lo stesso ritmo del 2011 - durante il quale fu installato in un solo anno metà della capacità complessiva attuale - non avremmo i problemi di approvvigionamento attuali. Anche da noi comunque, penso per esempio al sito produttivo di Catania, dove la produzione di pannelli fotovoltaici è all’avanguardia, ci sono varie eccellenze nel settore.

Il futuro è l'ibrido - mild o no - senza necessità di ricarica alla presa, il plug-in o l'elettrico tout court? E va incentivata la modalità elettrica più nel trasporto pubblico o nel privato?

Io penso che la transizione, e molte case automobilistiche hanno mostrato di volersi muovere in questa direzione anche alla recente COP26 di Glasgow, vada fatta verso l’elettrico 100%: l’ibrido, che è stato comunque importante, è una tecnologia che ha ormai vent’anni, e non può essere una risposta, perché ha sia i pregi ma anche i difetti di entrambi i sistemi. Portarsi appresso due motori anziché uno ha un costo in termini di peso, consumi e prezzo di listino. Vero è che l’utente è spinto verso soluzioni intermedie perché da un lato ha buoni propositi personali ma dall’altro è ancora intimorito dai limiti, spesso supposti, della nuova tecnologia. La transizione è importante sia in ambito privato che pubblico, e ci sono esempi virtuosi anche in Italia: a Milano, l’ATM, la locale azienda del trasporto pubblico, che fino a tre anni fa aveva il 98% dei mezzi a gasolio ora ne possiede già più del 50% elettrici, e conta di arrivare al 100% nel 2030. Altre amministrazioni si sono mosse diversamente, come Bolzano che ha optato per il trasporto pubblico a idrogeno anziché a batteria, ma sono comunque modalità importanti in questo senso.

Quali sono i falsi miti sull'elettrico? E le nuove abitudini da realizzare?

Un po’ ne abbiamo già parlato: l’autonomia e i tempi di ricarica, cui si ovvia programmando e sfruttando le soste. Un altro falso mito è il costo: certo, se si va dal concessionario un modello elettrico rispetto a un omologo a benzina può costare anche quasi il doppio, ma si tratta solo del prezzo iniziale. Se si va infatti a considerare il costo complessivo della vita del bene acquistato ci sono vari studi, come quello di Altroconsumo con l’Organizzazione Europea dei Consumatori, che dimostrano che nell’arco di quindici anni il costo di gestione di un’auto elettrica è inferiore. Pensiamo al rifornimento: per 100 chilometri di autonomia si pagano con la ricarica casalinga meno di 2 euro, il costo di un litro di gasolio all’incirca, che però non garantisce certo cento chilometri di percorrenza. Inoltre con l’elettrico non si paga il bollo, non si paga il parcheggio nelle strisce blu, la manutenzione è praticamente inesistente perché a parte batteria e pneumatici non c’è usura (nemmeno dei freni, usando, soprattutto in città, la frenata rigenerativa) e in paesi come la Norvegia (in alcuni casi, anche se pochi, anche in Italia) anche i pedaggi autostradali sono scontati. Un altro falso mito è che l’elettricità usata per la ricarica provenga comunque anche da combustibili fossili: è vero nel suo complesso, ma le colonnine erogano energia da fonti certificate 100% rinnovabili, e si può farlo anche in casa propria scegliendo fornitori che eroghino energia solo da quel tipo di fonti. Naturalmente i problemi ci sono: le colonnine sono state raddoppiate negli ultimi anni, ma il numero è insufficiente. Inoltre in Italia sono di bassa qualità, per lo più a ricarica lenta e presenti quasi solo al Nord e lungo le autostrade sono praticamente assenti. Gli stessi cartelli luminosi che indicano lungo il percorso i prezzi dei carburanti ignorano di fatto l’esistenza della mobilità elettrica. Se il mio lavoro richiede la necessità di percorrere molti chilometri al giorno l’elettrico diventa difficile da utilizzare. Ma questo non è un limite della tecnologia. All’estero, ad esempio, questo non avviene: in Francia, Svizzera e Germania, per esempio, praticamente ogni stazione di servizio lungo le autostrade ospita anche le colonnine per la ricarica dei veicoli elettrici. Si pone quindi la necessità di un cambio di passo, che sarebbe in realtà molto facile e anche remunerativo per i gestori della ricarica.