Infrastrutture al palo, un piano da 234 miliardi bloccato dal Titolo V
Il Paese è prigioniero dei suoi ritardi e del caos normativo con decisioni su materie strategiche di fatto delegate agli enti locali
Trieste, 11 febbraio 2013 – Il nome corrente è canale Mussolini perché, siccome il duce a parere di Berlusconi «ha fatto anche cose buone», la sua costruzione risale appunto agli anni '30 del secolo scorso. Ebbene, il Fissero-Tartaro-canal Bianco come si chiama l'asta idroviaria che collega la laguna veneta al Po, rischia di essere davvero usato per connettere il porto di Venezia e Mantova (e dunque la Lombardia). Il governo ha difatti firmato il decreto intitolato alle «acque promiscue»: in sostanza, determinate tipologie di navi potranno solcare sia il mare che acque interne. Pare un'ovvietà, ma non tanto visto che l'Italia delle carte bollate ha preteso per un secolo o poco meno che le merci di una nave dirette alla Lombardia fossero scaricate a Venezia e da qui ricaricate su una chiatta dedicata alla navigazione fluviale. «Sono le follie all'italiana: non usiamo nemmeno le infrastrutture che abbiamo e abbiamo rimosso la necessità di farne di nuove» commenta Paolo Costa, presidente dell'Autorità portuale di Venezia, già ministro ai Lavori pubblici, già presidente della commissione Trasporti in europarlamento.
Costa parla di «rimozione», concetto da psicanalisi che va applicato alla attuale asfissiante campagna elettorale in cui nessuno parla di infrastrutture. Ma il governo Monti ha definito un Piano dedicato alle cosiddette infrastrutture strategiche che prevede investimenti per 234 miliardi di euro da qui al 2030. Di questi, però, 73 miliardi sono relativi a lavori in corso o prossimi al cantiere, tutto il resto è su carta a livello di progettazione preliminare e un rebus quanto al finanziamento. «Premesso che usare la leva fiscale è molto difficile, non ci resta che puntare sul coinvolgimento dei privati», sostiene Stefano Napoletano, co-autore della ricerca «infrastructure productivity: how to save 1 trillion a year» realizzata da McKinsey.
I «privati» rischia di essere materia astratta, in Italia. Vero che Terna annuncia l'impegno a investire 4,1 miliardi nel quinquennio 2013-2017 per la manutenzione e lo sviluppo della rete elettrica. Vero che il presidente di Aiscat, Fabrizio Palenzona, segnala che i concessionari autostradali hanno speso 2,5miliardi nel 2009, 2,7 miliardi in ciascuno dei due anni a seguire e certifica che circa 700 milioni sono stati messi sul piatto nel primo quadrimestre 2012 (ultimo dato disponibile). Vero che, per fare un esempio relativo all'ambito portuale, l'Autorità veneziana per fine anno conta di completare 2 dei 4 accosti previsti a Fusina per il terminal delle «autostrade del mare», che prevede 225 milioni di investimento, di cui 190 a carico dei concessionari privati. E parecchi altri esempi di azione anti-paralisi e anti-crisi potrebbero essere citati sul versante degli aeroporti, della cablatura a banda larga, della modernizzazione degli acquedotti, delle ferrovie. «Ma se su tutte queste opere l'Italia ha urgente bisogno di saldare il suo gap con i paesi competitors - osserva ancora Napoletano, che in McKinsey è responsabile infrastrutture per il Mediterraneo - quel che tuttora manca, per coinvolgere più saldamente e diffusamente i potenziali investitori privati, è un serio quadro di priorità e un cruscotto normativo che dia effettive garanzie. Per esempio, la pianificazione delle infrastrutture strategiche di interesse nazionale deve essere fortemente centralizzata e non può essere lasciata in balia degli enti territoriali».
Se ne dice persuaso pure Mario Monti, secondo il quale «occorre quanto prima mettere mano al Titolo V della Costituzione, per rafforzare il ruolo dello Stato rispetto alle Regioni. Non è infatti possibile che politiche chiave per il Paese come le infrastrutture, l'energia, i trasporti ed anche il turismo, siano così parcellizzate».
Ne sa qualcosa al riguardo Mauro Moretti, amministratore delegato di Fs. E le Ferrovie sono da 20 anni alle prese con la realizzazione della rete Tav. Esemplare la vicenda della tratta nordestina, dove la Regione Veneto pur di non far nulla s'è inventata il progetto di una linea prossima alla costa adriatica. Irrealizzabile. «Dobbiamo imparare in primis a far rendere al meglio le infrastrutture esistenti. Salvo continuare a fare gli esterofili e citare la Tav spagnola, largamente sovradimensionata e con decine di convogli fermi perché inutili» commenta Moretti. E qui torniamo alla questione dei quattrini pubblici — che sono scarsi e vanno indirizzati al meglio — e dei denari privati (investitori e banche sono quanto mai selettivi). «Esiste un problema di funding e uno di financing, particolarmente marcati in Italia», segnala Napoletano. Vuol dire che è arduo reperire la provvista finanziaria dato che il sistema del credito fatica a pensare a 20-30 anni (financing), ma non di meno è complicato definire chi paga il conto (funding). E a questo secondo rebus quali altre risposte ci possono essere se non tariffe relative a servizi/concessioni, siano esse banchine portuali, gallerie ferroviarie, acquedotti, autostrade?
«A me pare miope e suicida una politica che, incapace di decidere, punta tutto sulle piccole opere e tralascia le infrastrutture strategiche», considera Costa, che appunto con una innovativa partnership pubblico-privata (Ppp) sta promuovendo il terminal di Fusina. Ma resta pure vero che il piano strategico di recente licenziato dal governo prevede di «concentrare» le risorse su 11 porti, 5 porti interni, 9 aeroporti, 14 interporti, 8 città e i soliti «archi» o corridoi plurimodali. Ma parlare di 11 porti non equivale di fatto a non coltivarne nemmeno uno? «Nessuno dei nostri 11 porti è degno del nome, perché nessuno dispone di fondali, spazi retrostanti, collegamenti. E già meglio individuarne 11 dei 123 censiti e meglio delle 24 autorità portuali», conclude Costa. Giusto. E iniziare sfoltendo le Autorità portuali, costringendole a fare sintesi e sistema?