La sfida delle infrastrutture: un nuovo fondo per finanziare la costruzione di grandi opere
I tecnici del ministero sono già al lavoro, ma tra i vari strumenti di private equity voluti da Tremonti, questo costituirà l'impegno più difficile
Roma, 28 marzo 2011 – E’ pronto a nascere un nuovo Fondo di private equity per investire nelle infrastrutture ancora da costruire (cosiddette greenfield). Un fondo dove la mano pubblica sarà ancora una volta decisiva e avrà come strumento oltre al Tesoro anche la Cassa depositi e prestiti.
È stato l'Amministratore delegato della Cassa, Giovanni Gomo Tempini, al convegno dell'Aifi (l'associazione italiana del private equity) a parlare per la prima volta di questo fondo in gestazione. Si tratta di un nuovo strumento che si aggiungerà agli altri già nati nell'era Tremonti. In realtà la notizia del nuovo dispositivo finanziario era nascosta nelle pieghe del decreto "Milleproproghe", dove si autorizzava il Tesoro a comprare una quota della Società di gestione del risparmio che avrebbe amministrato l'investimento in infrastrutture greenfield.
Gli sponsor di questa iniziativa, oltre alla Cassa, sono state le tre maggiori banche italiane, Intesa, Unicredit e Bmps. Ciascuna ha messo 250 milioni nel fondo. Mentre l'sgr che gestisce il fondo vede otto soggetti (oltre alle tre banche, al Tesoro e alla Cdp, anche Confindustria, Abi e l'Iccri con quote paritarie). Uno schema che potrebbe essere replicato anche per il nuovo fondo che si dovrebbe occupare di infrastrutture ancora da costruire, ora che è ormai chiaro che l'analogo strumento - F2i - messo in piedi da Gamberale, e che ha raccolto 1,2 miliardi da investitori istituzionali di tutto il mondo, si occupa soltanto di infrastrutture già realizzate.
Per un certo tempo, infatti, alcuni politici avevano equivocato sui progetti di Gamberale, pensando che potesse occuparsi anche di greenfield. Ma l'ex ad di Sip, Tim e Autostrade è persona troppo accorta per non comprendere che è molto più facile e redditizio limitarsi a investire in ciò che è già stato costruito: intanto non ci sono le lungaggini burocratiche - imprevedibili nell'iter e nella tempistica – per realizzare l’infrastruttura e poi si possono fare calcoli precisi di redditività futura sulla base dei canoni percepiti. Per il motivo speculare, il nuovo Fondo di Tremonti è forse la sfida più difficile da vincere, quasi una missione impossibile. Se realizzare la relativa sgr è abbastanza semplice e basterà poco tempo, molto meno facile sarà trovare degli investitori di lunghissimo termine disposti a mettere i soldi nel fondo, che potrà arrivare anche a 30 anni.
Qui si apre una partita complicata. In Italia non ci sono molti investitori disposti a entrare in un'avventura che può arrivare a durare tre decenni e, soprattutto, qui non girano così tanti soldi. Per questo motivo i tecnici del Tesoro e della Cassa si dovranno affidare a un management di livello internazionale, capace di attirare l'interesse di fondi pensione esteri, fondazioni, Bei e altri soggetti di questo tipo.
Per il Fondo Italiano d'Investimento la raccolta è stata più semplice perché il business è più facile e tradizionale (sebbene occorrerà misurare sui fatti la capacità reale d'intervenire nel capitale delle imprese). Le stesse banche azioniste fanno già il mestiere di investire nell'equity di molte aziende. Ma il Fondo per le infrastrutture è penalizzato prima di tutto dallo stesso "sistema paese", dove dal progetto alla costruzione passano in genere, per le lungaggini burocratiche, dagli 8 ai 10 anni. Mentre sulla realizzabilità dell'opera stessa pesano incognite di ogni tipo, assolutamente imprevedibili come l'opposizione di gruppi organizzati, di Comuni, Regioni e così via. - D'altronde, chi crede che Tremonti faccia bene a tentare questa difficile strada parte dal presupposto che i soldi pubblici sono finiti e che quindi occorre trovare nuovi modi per utilizzare il risparmio privato nel creare le infrastrutture. “Il momento è buono - dice Giampio Bracchi, presidente dell'Aifi - la raccolta mondiale dei fondi di private equity specializzati in infrastrutture è tornata nel 2010, con 27 miliardi, ai livelli precrisi (era di 26 nel 2007). È chiaro che occorre cercare di intercettare questi capitali. E l'Italia ha più bisogno di altri paesi di realizzare grandi opere.