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Briciole di pane

Persi 1.500 miliardi per rifare i porti

Inerzia, vincoli ambientali e cause: i lavori negli scali sono fermi. E i concorrenti stranieri ci superano

Milano, 6 settembre 2013 - Mentre il traffico marittimo mondiale è destinato a ripartire con volumi consistenti, almeno dopo il 2014, gli scali italiani, in attesa di una sferzata strategica, stanno sull'uscio. Per quanto riguarda il transito di container, nel quinquennio 2004-2008 le unità (Teu) passate per il Mediterraneo sono aumentate del 46,5% (da 9,7 a 14,3 milioni, fonte Eurispes). Il nostro sistema portuale ha però perso terreno rispetto ai concorrenti di altre nazioni, Ue ed extra-Ue.

Se infatti nello stesso periodo Port Said, Malta e Tangeri hanno ampliato le proprie quote di mercato, Gioia Tauro è passato dal 33,3% al 24,2%, Taranto dal 7,8% al 5,5% e Cagliari dal 5,1% al 2,1%. E negli ultimi quattro anni il divario è ulteriormente aumentato. Così come è cresciuto il gap dei costi. Non solo in termini di cuneo lavorativo, ma anche energia e carburante, specialmente in relazione alle tasse applicate negli scali.

Il costo medio orario nei porti italiani è di 22,1 euro contro i 3,1 in Marocco e 1,8 in Egitto, mentre i carburanti che si usano a Gioia Tauro costano il 25% in più rispetto a Port Said e addirittura il 500% in più rispetto a Malta. Inoltre lo scalo marocchino di Tangeri in due anni ha visto crescere i propri volumi addirittura del 50% grazie alle infrastrutture che lo circondano. Additate a esempio del Mediterraneo.

Per l'Italia invece le infrastrutture portuali e soprattutto quelle di accesso ai porti sono il buco nero dell'economia. Una voragine quantificata in 1500 miliardi di euro. Persi per strada e difficili da recuperare. A spiegarlo sono i numeri della Corte dei Conti nell'indagine di controllo del mese scorso sulle «Spese per la realizzazione di opere infrastrutturali di ampliamento, ammodernamento e riqualificazione dei porti».

«Relativamente alle opere gestite dalle varie Autorità portuali - spiega la Corte - l'istruttoria ha evidenziato marcati profili di criticità consistenti, in particolare, nei ritardi accumulati nell'attuazione degli interventi, una parte significativa dei quali non risulta conclusa ad oltre un decennio dall'adozione degli atti di programmazione e dall'assunzione dei limiti di impegno per un totale di finanziamenti pubblici di quasi 1500 miliardi di euro (in media, circa il 38% delle opere finanziate con leggi 488/1999 e 388/2000 e quasi il 50% di quelle finanziate con legge 166/2002 devono ancora essere completate)».

Insomma, un record negativo per il sud. Brindisi, Catania, Messina, Palermo, Taranto e Trieste presentano indici di avanzamento degli interventi infrastrutturali programmati inferiori al 10%. Le cause? Diverse: «Atte amenti di sostanziale inerzia o inadeguata capacità di gestione di alcuni enti autonomi, il proliferare dei vincoli ambientali, l'ampio contenzioso relativo alle gare d'appalto, procedimenti giudiziari con sequestro di intere aree interessate ai lavori, criticità progettuali e ritardi procedurali».

Un quadro devastante, come si legge dalla relazione, aggravato dalla lentezza della giustizia e che non può più essere perpetuato. Dal prossimo anno ci sarà una selezione fisica dei porti sulla base di caratteristiche che per i mega carriers diventeranno indispensabili. Profondità delle banchine di almeno 18 metri, e lunghezza almeno compresa tra i 300 e i 400 metri. Disponibilità di bacini di evoluzione in grado di consentire le manovre adeguate. Buttare via denaro adesso è come tagliare il ramo su cui si sta seduti. Serve volontà politica e certezza del diritto. Eppure all'ordine del giorno ci sono porti bloccati dal Tar per motivi più disparati. Dragaggi fermi. Stop, sequestri e dissequestri.

Come racconta l'ultimo caso, in ordine di tempo, a Taranto. Dove non c'è solo l'Ilva. Lo scorso maggio una delegazione cinese sbarca nel capoluogo pugliese per visitare il porto e valutare alcuni investimenti. Peccato che la delegazione «si sia soffermata», scriveva un quotidiano locale, «in particolare sulle aree che dovrebbero essere destinate, oramai il condizionale è d'obbligo, a insediamenti di logistica connessi con l'attività del terminal contenitori». Le aree erano infatti state messe sotto sequestro una trentina di giorni prima e sbloccate dal Consiglio di Stato soltanto due settimane dopo giusto in tempo per non far saltare del tutto l'adeguamento dell'area polisettoriale per il contenzioso aperto da Terminal Rinfuse. La sospensiva è arrivata a fine giugno quando i privati hanno trovato un accordo (il trasferimento di Terminal Rinfuse sull'area della calata quattro) perché lo stop avrebbe procurato un danno di 200 milioni. La cifra corrispondente agli investimenti stanziati e congelati dai giudici. L'unico progetto a scampare dal blocco sarebbe stato quello della piastra logistica del porto, un nodo di interscambio a monte. Valore 220 milioni. Peccato che senza un porto rinnovato a valle sarebbe stato inutile. Ora tutto il porto (riqualifica a parte) può pensare al futuro. Ma che idea si saranno fatti gli investitori cinesi? Probabilmente, scappare.

Antonelli Claudio (Libero Quotidiano)