Trasporto terrestre, tra voci e silenzi
La crisi del cargo ferroviario è un sintomo, non la malattia

Roma, 9 aprile 2015 - Inutile girarci intorno o utilizzare consolanti eufemismi. Il trasporto terrestre, in Italia, è gravato da tante, troppe, criticità. Non affrontabili alla stregua di problemi isolati da risolvere. Si tratta di una malattia “di sistema”, che richiede, a nostro avviso, di una terapia “di sistema”. Una chiara individuazione dell’”équipe medica”, e della correlata responsabilizzazione, sarebbe già un bel passo avanti.
Proviamo, in maniera un po’ teatrale, a tracciare un quadro della situazione dando “voce” ai diversi attori.
In apertura di scena, potrebbero parlare le aziende di logistica: operatori specializzati, che fanno dell’intermodalità la mission principale. Costoro, nella nostra immaginaria recita, denuncerebbero per prima cosa la Caporetto del cargo ferroviario. Il trasporto ferroviario merci, in Italia, è sceso in maniera impressionante: -40%, prendendo a riferimento il 2008. Gli addetti ai lavori, ormai, considerano gli obiettivi posti dall’Unione Europea (al 2030, l’intermodalità dovrebbe coprire il 30% dei trasporti merci sopra i 300 chilometri; al 2050, la quota dovrebbe salire al 50%) nient’altro che delle “favole”, assolutamente prive di riscontro con la realtà. Eppure negli altri Paesi continentali, durante gli ultimi cinque- sei anni di pur terribile crisi, il cargo ferroviario o cresce o “tiene”. Confrontando i numeri del 2009 con quelli del 2012/2013 (fonte EUROSTAT - dati in migliaia di tonnellate), vediamo che la Germania è passata da 312.000 a oltre 366.000, la Polonia da 200.800 a oltre 232.000, la Svizzera da 61.800 a 65.000, la Svezia da 56.500 a oltre 67.000, la Spagna da 22.000 a 26.500. In Italia, invece, una débacle. Né la tendenza accenna a invertirsi: le ultime tabelle disponibili, quelle del 2013, danno per il Bel Paese 87.960 (parliamo sempre di migliaia di tonnellate), mentre nel 2012 eravamo a 88.505. Comprensibilmente, poi, questa ipotetica “prima voce parlante” non lesinerebbe critiche al Gruppo Ferrovie dello Stato. Anzi, lamenterebbe la consumazione di un vero e proprio “sacrificio” del comparto merci, in nome di logiche di bilancio e di sviluppo dell’alta velocità passeggeri. La strategia nazionale FS ha ridotto i servizi, le tracce, gli scali; ha inoltre abolito il traffico diffuso a carro singolo o a gruppi di carri, importantissimo in un tessuto industriale che vive sulle piccole-medie imprese. Come tutto ciò possa conciliarsi con le fondamentali direttive europee degli anni ’90, che vollero “disegnare” il trasporto terrestre UE avendo quale caposaldo il principio della separazione tra la gestione delle attività di trasporto e quella delle infrastrutture e della rete ferroviaria, non è dato comprenderlo.
A questo punto potrebbe ben parlare, da personaggio chiamato in scena, Trenitalia Cargo. A sua discolpa porterebbe argomenti logici e giusti. Farebbe presente che, in Italia, la ferrovia è “perdente” soprattutto per l’impossibilità di reggere il confronto con l’autotrasporto sul fronte dei costi e delle tariffe. In Germania un trasporto su gomma di 600 chilometri costa 840 euro, 1,4 euro a chilometro, mentre in Italia ne costa 540, cioè 0,9 euro a chilometro. Insomma, non c’è partita. E’ il sistema italiano che prevede, a vantaggio dell’autotrasporto, ingenti finanziamenti non finalizzati allo sviluppo. Lo ha accertato persino la Corte dei Conti, ad agosto 2014: la parte preponderante degli incentivi o aiuti per l’autotrasporto viene destinata al rimborso di spese correnti, non al concreto stimolo del settore. Date queste condizioni generali di fondo, qualsiasi sforzo per efficientare il trasporto ferroviario merci è, semplicemente, fatica sprecata.
Interverrebbe immediatamente, con voce stentorea, un personaggio denominato “mondo dell’autotrasporto”. Lamenterebbe l’assoluta drammaticità delle condizioni in cui versa. Una situazione che attiene alla sopravvivenza stessa del comparto, e pertanto non consente di baloccarsi con eleganti principi o teorie economiche. L’ultimo studio UNRAE (Unione Nazionale Rappresentanti Autoveicoli Esteri), presentato a marzo 2015, sembra, in effetti, qualcosa di assai simile a un bollettino di guerra. Nei cinque anni oggetto di analisi (2008-2013), si sono persi 197.000 posti di lavoro: 15 volte il numero dei dipendenti dell’ILVA di Taranto o, se si preferisce, 360 volte il numero dei dipendenti delle acciaierie di Terni. L’Italia ha perso il 12% delle Aziende con oltre 6 mezzi. In particolare, la crisi ha portato 2.000 imprese di trasporto merci a chiudere. Le altre affrontano la complicata strada delle fusioni; oppure, seguendo una tendenza in rapida diffusione, delocalizzano nell’Est Europa. Si stima che l’esodo verso l’estero abbia sottratto, alla Motorizzazione italiana, l’immatricolazione di 26.000 veicoli superiori alle 3,5 tonnellate; con non poche ripercussioni in settori contigui, se è vero che, nel medesimo periodo di riferimento, hanno chiuso i battenti 45 concessionari di veicoli industriali e ben 62 officine autorizzate.
Altri personaggi potrebbero, a questo punto, occupare il palcoscenico. Uno, in particolare, molto avrebbe da dire: l’Ente proprietario delle strade. Ma, per ora, fermiamoci qui. Facciamo piuttosto rilevare il punto cruciale: ossia che, rispetto a un tale livello di complessità dei problemi, manca, ed è un silenzio “assordante”, la voce del decisore politico. Una voce finalmente consapevole del fatto che il tema dei trasporti (in questa sede ci siamo occupati solo di trasporto terrestre, ma le considerazioni non muterebbero aggiungendo allo scenario porti e aeroporti) è un tema di politica economica generale, non di politica infrastrutturale settoriale. Un tema che riguarda l’identità che ci prefiguriamo, per il nostro Paese, nel contesto globale. E, conseguentemente, il ruolo e il livello dell’intervento pubblico nell’economia.