Le Dolomiti per finanziare l'investimento di Stato
Il debito non più sostenibile non può frenare gli impieghi pubblici nel project financing
Brescia, 2 febbraio 2011 - Il tempo di scrivere un articolo, 20 minuti, e il debito pubblico è salito di più di 3 milioni di euro. Trascorse 24 ore, peserà sulle nostre spalle un fardello di ulteriori 236 milioni e, tempo un mese, avremo un impegno sui mercati finanziari di altri 7 miliardi circa. Il debito italiano di 1.869,9 miliardi di euro, pari a1120% del Pil - in sesta posizione nel mondo e in terza tra i Paesi sviluppati - sembra fungere da alibi per non investire in infrastrutture. Nel quinquennio 2005-09 gli investimenti fissi lordi sono calati del 3% e, in barba al federalismo, le amministrazioni territoriali, che hanno sempre governato i due terzi degli investimenti, hanno dovuto registrare una contrazione anche maggiore; pari cioè all'8% e a un calo di oltre 2,3 miliardi di euro. L'enorme contraddizione per cui gli investimenti calano e il deficit cresce, evidenzia lo scempio che questa generazione sta consumando a discapito delle future. Si dimentica che, con il processo di unificazione europea, si è accettato un limite al deficit entro la soglia del 3% solo perché si presupponeva che questo rappresentasse la fisiologica esigenza di investimenti infrastrutturali. Si era certi che, pur mettendo in conto un debito potenzialmente in crescita, questo fosse funzionale ad anticipare i costi di asset di cui avrebbero beneficiato anche le generazioni future e non certo ad alimentare gli sperperi di una generazione irresponsabile. Peraltro, finanziando gli investimenti in infrastrutture, materiali o immateriali che fossero, si pensava di consolidare asset decisivi per la crescita, unica condizione per risanare il debito stesso. Accade, invece, che l'Europa alimenti stock di debito perché non accetta di abbandonare più velocemente un welfare insostenibile, o peggio, che lo ha abbia alimentato per sanare le speculazioni di alcuni operatori finanziari. Insomma, tutte le ragioni sono buone per fare ulteriore debito, fatta eccezione per gli impegni in infrastrutture. E l'Italia, in Europa, registra più di altri questa inerzia al cambiamento e questo deficit infrastrutturale. Jacques Attali, nel suo ultimo libro intitolato Come andrà a finire?L'ultima chance del debito pubblico, commenta così la situazione del nostro Paese: «Come reagirebbe un investitore privato al quale si domandasse di investire in una impresa il cui debito rappresenta quasi cinque anni di fatturato e le cui perdite annuali sono pari a un quinto del fatturato? Fuggirebbe. Questa è la ragione per cui avevo sperato nel project financing. Grazie, infatti, alla collaborazione con i privati auspicavo si potessero spingere gli investimenti oltre quei limiti di natura finanziaria e professionale che il pubblico non può e non sa superare. Del resto, se si devono finanziare infrastrutture per più di 200 miliardi di euro (si veda il libro Sviluppo delle infrastrutture. Le priorità nazionali per la crescita economica promosso da Fondazione Rosselli e pubblicato nel 2010 da Etas), l'unica alternativa per una manovra di tale dimensione è il ricorso al capitale privato. Tuttavia, il project financing, dopo aver scontato un avvio lento dovuto anche alla messa a regime della normativa e ai primi anni di sviluppo, segna una contrazione del tasso di crescita a partire dal 2006, con un picco nel 2009, quando si è registrato un -75 per cento. Molte sono le ragioni avanzate per spiegare perché il project financing stia deludendo le aspettative create, ma la risposta è una ed è semplice: la sostenibilità dei progetti è garantita, anche nelle collaborazioni pubblico-privato, da una quota di contribuzione pubblica che, poco o tanto che sia, oggi è pregiudicata dai vincoli del Patto di stabilità interno e dai tagli alla finanza pubblica. A dimostrazione di ciò basti citare che Ance stima una riduzione degli investimenti dei Comuni di 3,3 miliardi di euro nel 2011 e di un ulteriore miliardo di euro nel 2012. È dunque necessario che il pubblico garantisca in altro modo la propria contribuzione alla joint venture con il privato. Se non possiamo fare ulteriore debito pubblico, si potrebbero garantire gli investimenti in project financing conferendo asset anziché cash. Si potrebbe ipotizzare la costituzione di un grande fondo immobiliare-infrastrutturale, al quale le amministrazioni pubbliche conferiscano i propri beni in cambio di nuovi investimenti. Un fondo che trasformi patrimonio improduttivo oneroso in patrimonio produttivo redditizio. L'occasione ci è offerta dal decreto sul federalismo demaniale (d. lgs. 85/2010), che prevede la possibilità di conferire a un fondo i beni ricevuti dallo Stato, cui si vanno ad aggiungere quelli del patrimonio disponibile delle amministrazioni locali. Si parla per l'Italia di valori nell'ordine di miliardi di euro: oltre 2,3 miliardi di euro dal federalismo demaniale e circa 82 miliardi di euro tra patrimonio disponibile (pari a 16.258.450.976 euro) e indisponibile (pari a 65.735.891.641 euro), valori questi ufficiali e sottostimati (dati di bilancio 2008). Il fondo potrebbe garantire anche la segregazione da altri impegni pubblici e l'esclusività delle risorse liberate all'impiego per gli investimenti. L'importante è che ci si affretti, perché non c'è più tempo e non si può continuare ad accumulare debito che pagherà chi oggi non può votare.
(Fonte Finanza Mercati)