Nimby, un vero "fenomeno" italiano
Intervista Alessandro Beulcke presidente di Aris - Nimby Forum®
Cominciamo dal principio. Quando e con quali obiettivi è nato il Nimby Forum?
L’Osservatorio Media Nimby Forum è nato nel 2004, quando ci siamo domandati che dimensionamento nazionale potesse avere la sindrome Nimby e quali gli impianti contestati che fossero reti viarie, ferroviarie o progetti per la produzione di energia elettrica. L’obiettivo principale dell’Osservatorio è quello di monitorare il fenomeno Nimby nel nostro Paese, elaborando dati aggiornati sull’andamento delle contestazioni alla realizzazione di opere infrastrutturali.
La ricerca si sviluppa a partire dalle notizie sulle contestazioni che compaiono sui media, sia a livello nazionale sia a livello locale. A partire da questi dati, attraverso convegni, tavole rotonde e momenti di confronto istituzionale, come le audizioni presso le Commissioni parlamentari competenti, abbiamo portato avanti nel tempo una riflessione sul tema, coinvolgendo concretamente gli stakeholder - imprese, istituzioni locali e centrali, associazioni – e proponendo a livello politico strategie e azioni per la gestione e la prevenzione del fenomeno. Attualmente Nimby Forum costituisce il primo e unico database nazionale delle opere che subiscono contestazioni e si è accreditato come importante think tank sulle tematiche oggetto di studio.
“Non nel mio giardino” è nato per descrivere il rifiuto da parte delle comunità locali alla realizzazione di nuove infrastrutture per paure legate ai mutamenti sociali e ambientali che ne deriverebbero per il territorio. Oggi, come emerge dalle analisi del Forum, il fenomeno si è ampliato e si è sottratto alla sua specificità, assumendo sempre più i connotati di una battaglia politica o ideologica e superando il significato originario del termine. Questo superamento è un aspetto tutto italiano oppure anche in altri paesi è “entrato in politica”?
Potrei dire che è una caratteristica soprattutto italiana, sebbene di casi simili ve ne sia notizia anche in altri Paesi. Ma il nostro è un Paese in cui si vive in una campagna elettorale perenne, in cui non si riesce ad avere una progettualità di lungo termine che abbia realmente come obiettivo il bene comune e in cui ogni scelta viene rimessa in discussione al successivo mandato elettorale.
Troppo spesso vediamo amministratori locali cavalcare le proteste della cittadinanza (il cosiddetto NIMTO – Not In My Term Of Office): è il modo più semplice per garantirsi un consenso che si traduca in voti e consolidi posizioni. Questo però non è fare politica. Figure istituzionali di assoluto rilievo – tra questi, per esempio, Giuliano Amato, la cui intervista è stata pubblicata sull’ultimo rapporto Nimby Forum – si sono espresse in maniera molto chiara, individuando nella mancanza di senso di responsabilità della politica uno dei principali fattori scatenanti di questa situazione.
Quali sono le opere più contestate e quali sono le ragioni poste alla base del rifiuto?
I dati dell’VIII edizione dell’Osservatorio Nimby Forum registrano un’ulteriore crescita del fenomeno nel Paese: gli impianti censiti hanno raggiunto quota 354, con un aumento di quasi 7 punti percentuali rispetto al 2011. Sul totale degli impianti contestati, 151 sono i casi emersi per la prima volta nel 2012, mentre dei restanti 203 alcuni sono presenti nel database Nimby fin dalla prima edizione (v. tabella "Otto edizioni a confronto" e mappa "Gli impianti contestati").
I dati rilevati nel 2012 confermano la distribuzione settoriale degli impianti delle ultime tre edizioni del Forum: il comparto elettrico con 222 impianti contestati (ben il 62,7% del totale delle opere censite), continua ad essere il più colpito dalle proteste. In questo ambito, un fronte di opposizione molto caldo ha interessato gli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, a cui sono riconducibili 176 contestazioni sulle 354 totali. In particolare, su 10 impianti per la produzione di energia elettrica oggetto di opposizioni, ben 9 prevedono l’uso di fonti rinnovabili.
Tra le opere più controverse, si annoverano le centrali a biomasse (con 108 impianti), le centrali idroelettriche (32) e i parchi eolici (32). I numerosi No alle rinnovabili colpiscono in maniera trasversale centrali di grandi dimensioni ma anche e soprattutto piccoli impianti, di potenza inferiore a 1 MW: questi ultimi si sono, infatti, moltiplicati anche in virtù del percorso autorizzativo semplificato, previsto dalla normativa vigente per tale tipologia di progetto (v. diagramma "Distribuzione settoriale degli impinati censiti").
In calo di 3 punti percentuali rispetto al 2011 sono le contestazioni afferenti al settore dei rifiuti (28,3% sul totale), che mantiene tuttavia la seconda posizione dopo il comparto elettrico. Al terzo posto, il settore delle infrastrutture, che con un 7,6% sul totale delle contestazioni registra un trend in ascesa rispetto alla scorsa edizione (quando si attestava al 4,8%). In generale la principale motivazione di contrarietà espressa dai soggetti che avversano le opere censite è la preoccupazione per gli effetti negativi che gli impianti potrebbero avere sull’ambiente (37,3%). Nelle posizioni successive, con percentuali molto simili, seguono le carenze procedurali e lo scarso coinvolgimento dei territori e dei soggetti di riferimento (15,5%), l’impatto sulla qualità della vita (13,3%) e gli effetti sulla salute (12%). (v. tabella "Motivazioni espresse contro l'impianto").
E’ possibile secondo lei realizzare opere “democraticamente elette”? Mi spiego meglio. Non c’è dubbio che la condivisione con la popolazione ospite di un progetto infrastrutturale sia uno step fondamentale e irrinunciabile. Ma decidere la programmazione infrastrutturale solo in base a questa non rischia di accentuare una visione meramente localista a dispetto di un interesse collettivo generalizzato? In sostanza è chiaro che un rigassificatore o una linea ad alta velocità nel proprio giardino non rendano entusiasti, ma il beneficio complessivo per il Paese non dovrebbe prevalere?
Il tema del bene comune è quello su cui occorre puntare per ritrovare una coesione forte. Per questo, sarebbe necessario avere una visione chiara e condivisa di quello che vogliamo essere come Paese, del ruolo che vogliamo avere politicamente, a livello industriale ed economico; solo a partire da una visione alta e altamente condivisa, è possibile individuare le priorità, anche in termini infrastrutturali, e su questo coinvolgere i cittadini e chiamarli a un senso di responsabilità, che significa anche disponibilità ad accettare i disagi, temporanei o meno, che il raggiungimento di questo obiettivi necessariamente comporta.
Ovviamente, tale disponibilità dovrà essere premiata non solo e non tanto attraverso le corrette remunerazioni – questo deve essere considerato un caso ovvio - quanto soprattutto con un atteggiamento di assoluta trasparenza da parte del proponente sul reale impatto ambientale dell’opera, sulle ricadute in termini economici, ed occupazionali, ma anche di disagio, per esempio nella fase di cantierizzazione.
Alla fantasiosa lista di acronimi di derivazione Nimby, ne devo aggiungere uno fresco di conio. Il BASTBI, ovvero “meglio piccole che grandi opere”. E’ un fenomeno tutto italiano, ma per uniformarsi alla stile anglofono è tradotto in “Better a smaller than a bigger infrastructure”. E’ l’ennesimo rivolo del filone “benaltrista” - occorre ben altro rispetto al programmato - oppure è un argomento fondato?
Dai nostri dati emerge purtroppo che anche i piccoli impianti sono osteggiati: è per esempio il caso delle biomasse. Quando l’impianto ha comunque una rilevanza esclusivamente territoriale, si tratta di far funzionare bene gli strumenti di concertazione che ci sono.
Le imprese dal canto loro non devono limitarsi a fare ciò che prescrive la legge, ma devono cercare un confronto vero con i cittadini, in questo devono essere sostenuti dalle amministrazioni che hanno il dovere di interrogarsi sui progetti, di valutarli in maniera oggettiva, ragionando in termini di lungo periodo. La disponibilità al dialogo deve essere patrimonio di tutti coloro che sono interessati al progetto: imprese, amministratori, cittadini (v. "Tutti gli acronimi Nimby").
Nimby è un ostacolo legato al tema del consenso che può trovare anche una risoluzione. Ma che fare quando mancano i soldi per realizzare le opere? Alcune scuole di pensiero sostengono che proprio nei periodi di crisi lo Stato debba far di più proprio in funzione anticiclica. In questo caso una via potrebbe essere quella di svincolare la spesa per gli investimenti infrastrutturali dal computo del deficit statale?
È possibile, sono in molti a teorizzare questa strada. Ma altri pensano che questa sarebbe una logica fuorviante sul deficit. Inoltre, non possiamo stampare moneta e i budget statali sono davvero risicati. Altri ancora sperano in interventi massicci della Cassa Depositi e Prestiti. Ma credo si tratti di un falso problema: delle 354 opere e impianti che censiamo, molti progetti, anzi la stragrande maggioranza, sono sostenuti da capitali privati, che spesso arrivano da multinazionali estere decise a investire nel nostro Paese. È lì il problema: nell’incapacità di permettere le iniziative e l’iniezione di capitali dall’estero.
Secondo alcuni sviluppando congrue analisi costi-benefici molte opere recenti non si sarebbero mai dovute realizzare. L’equilibrio costi-benefici è senza dubbio un parametro fondamentale, ma se a questo ci fossimo unicamente riferiti, con buona probabilità, non avremmo mai dovuto realizzare neanche l’Autostrada del Sole. Infatti, quando negli anni 60 fu completata, il traffico commerciale stentava a decollare tant’è che l’allora società Autostrade, controllata dall’IRI, al fine di invogliarne l’utilizzo offriva nelle aree di servizio la colazione gratis ai camionisti, che disincentivati dal pedaggio preferivano ancora le consolari. Oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, non c’è più bisogno del marketing del “cornetto”. Per uno spostamento su gomma da Roma a Firenze o Milano è impensabile non utilizzare l’autostrada. E’ stata dunque realizzata una infrastruttura che ha creato una domanda che non c’era.
Ritorniamo alla questione della visione condivisa e del bene comune. In quella stagione, quella del boom economico, era certamente molto più semplice. Il contesto era completamente diverso e molto più favorevole alla crescita: il progresso, l’industrializzazione del Paese, era un valore molto evidente, da perseguire anche pagando prezzi alti. Prezzi di cui peraltro non conoscevamo ancora la portata perché le tematiche ambientali non erano certo in cima alle agende dei governi come accade oggi.
Per non parlare del grado di conoscenza di quei temi e delle scarse potenzialità, in un’era pre-internettiana, di veicolare comunicazione. Oggi è certamente tutto meno netto. Il progresso deve essere sostenibile. La qualità della vita non è semplicemente consumare di più. Il contesto in cui ci muoviamo è globale. A maggior ragione è importante tornare a porci domande fondamentali: Che tipo di Paese vogliamo essere? Cosa è necessario fare per diventare quel tipo di Paese? Cosa siamo disposti a fare per raggiungere questo obiettivo? Dobbiamo cominciare a farci pubblicamente queste domande, ad avere ben chiari anche noi costi e benefici delle diverse opzioni, a presentarle in maniera chiara al Paese e ai cittadini. Il resto viene di conseguenza.
Prima un rigassificatore, oggi forse anche la Torino – Lione, domani una centrale elettrica. Quali sono le ragioni che rallentano pesantemente l’iter per l’autorizzazione dei progetti infrastrutturali e, soprattutto, perché anche una volta approvati c’è comunque il rischio che non se ne faccia nulla. Cosa serve, un percorso amministrativo più snello dai tempi certi, l’istituzione di un punto di non ritorno?
Negli ultimi anni, abbiamo assistito a un’altra deriva tutta italiana: abbiamo visto diventare protagonista del processo autorizzativo la Magistratura. Spesso accade infatti che un progetto che ha affrontato e superato l’iter autorizzativo previsto, viene bloccato perché una delle parti in causa, non soddisfatta dell’esito, fa ricorso. A quel punto necessariamente il percorso si blocca e l’iter diventa confuso, i tempi del tutto incerti.
E’ una situazione che raggiunge livelli paradossali: sappiamo di casi in cui le amministrazioni locali non partecipano alla Conferenza dei Servizi (che è appunto il percorso istituzionale previsto per consentire a tutti gli stakeholder di confrontarsi sul progetto e di giungere a una decisione condivisa) cui sarebbero per legge tenute a partecipare, ma, a posteriori, scelgono di fare ricorso. In questo quadro, è quasi incredibile che ci siano imprenditori, anche a livello internazionale, che ancora scelgono di investire nel nostro Paese: questa è infatti un elemento fortemente disincentivante.
Da quando segue il complesso panorama infrastrutturale del Paese qual è a suo avviso la più importate riforma che ha effettivamente inciso sul sistema? Come la migliorerebbe?
Come Nimby Forum siamo da sempre sostenitori dell’introduzione di istituti simili al Débat Public francese. Un percorso che può riuscire a garantire i diritti di tutti gli attori, definire tempi certi e costringere a un atteggiamento trasparente tutti coloro che sono coinvolti. Oggi finalmente qualche spiraglio sembra essersi aperto: di istituzione del Dibattito Pubblico parla la SEN (Strategia Energetica Nazionale) firmata nel mese di marzo dal Ministero dello Sviluppo Economico e dal Ministero dell’Ambiente. In parlamento sono stati presentati diversi disegni di legge su questo tema.
Le imprese, che sono le prime a pagare lo scotto di questa difficoltà, hanno dimostrato di avere una sensibilità e una disponibilità molto diffusa, sono pronte ad assumersi anche maggiori onori, ad aprirsi ad un confronto maturo con le istituzioni e i cittadini sulle ragioni e le caratteristiche dei progetti. E’ la politica che continua ad essere in ritardo e dimostra di non sapere stare al passo con le sfide che la contemporaneità ci impone.